Letteratura Apocalittica
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Paolo Garuti O.P.
Convegno "Verso il terzo millennio" (Cagliari, 20-29 gennaio 1996)

Anche se non è una grande novità dal punto di vista metodologico, divideremo il nostro lavoro in due parti: interessandoci innanzitutto dell'apocalittica come movimento letterario e di pensiero, poi dell'Apocalisse canonica. Attribuita a Giovanni.

Tenteremo di dare una definizione, non tanto della letteratura apocalittica, quanto della mentalità apocalittica (c'è chi mette in dubbio che se ne possa elaborare una definizione), per poi entrare nelle viscere del testo apocalittico canonico del Nuovo Testamento: l'Apocalisse di Giovanni.

Per definire cosa significhi "apocalittico", mentalità "apocalittica", letteratura "apocalittica", è inevitabile un confronto con la mentalità e la letteratura profetica. Di fatto, in termini cronologici, gli apocalittici seguono i profeti.

Una volta spentasi la grande voce della profezia, per lungo tempo, si rimedita sulla parola dei profeti finché questo non produce quel tipo di letteratura che noi chiamiamo apocalittica. Ma questo comporta, come vedremo, una sensibile mutazione di risorse letterarie di produzione ed anche di posizione rispetto alla storia, in particolare alla storia del popolo di Dio.

Molto spesso usiamo i due termini senza distinzioni: diciamo di qualcuno che ha delle idee apocalittiche, che usa immagini apocalittiche, come diciamo di qualcuno che è un profeta.

È necessario fare prima due riduzioni e poi due generalizzazioni. Per arrivare a dire che tutti gli scozzesi sono avari, bisogna che io riduca l'idea di "scozzese" a quei due o tre scozzesi avari che ho conosciuto e poi la generalizzi a tutti gli scozzesi (cosa che non andrebbe mai fatta, soprattutto quando si tratta di intere popolazioni, ma che di fatto può aiutarci da un punto di vista, per così dire, metodologico, per avere qualche idea chiara, un quadro di riferimento).

Parlando di apocalissi la riduzione consiste nel cercare di limitare il campo di indagine a quel tipo di letteratura e di testi che più propriamente, in maniera cosciente da parte dell'autore, possiamo chiamare apocalittici, cioè "di rivelazione".

Apokalypto, in greco, significa rivelare, o, ed è il significato per noi più importante, svelare un qualcosa che era nascosto.

Come vedremo, ciò è parte essenziale del gioco dell'apocalittico. Proprio perché egli si trova ad essere un succedaneo del profeta, ma non vuole essere considerato propriamente un profeta, nel momento in cui compone il suo libro, in maniera abbastanza cosciente, afferma: "esiste una letteratura ufficiale (chiamiamola letteratura profetica del Tempio), io però vi manifesto un qualche cosa che era nascosto, e che finalmente vi posso rivelare". Anche san Paolo fa questo gioco quando si tratta di aprire la salvezza ai pagani. Si chiede come mai per tanti secoli la salvezza è stata rivelata solo ad Israele e si è dovuto attendere tanto perché fosse estesa ai pagani. Forse Dio ha cambiato idea? No, ma il piano divino, nascosto dalla creazione del mondo, solo ora si manifesta.

Mi limiterò a parlare, quindi, di quei testi che in maniera esplicita si presentano come rivelazione, senza entrare troppo nei dettagli. E generalizzo al termine apocalittico il tipo di mentalità che li caratterizza.

Anche trattando della profezia, mi limito, fino a un certo punto, all'idea di prophetes come di colui che, secondo l'etimo greco pro-phemi, parla davanti: parla in nome di..., parla davanti a..., parla prima che... Quest'ultimo è il significato abituale della parola profeta: qualcuno che parla anticipando i tempi (come vedremo, questa sì che è una riduzione pericolosa). Anche questo atteggiamento è in qualche misura cosciente, quella coscienza che nei testi profetici è manifestata dal ritornello: "Nehum Adonai" parola, o meglio oracolo di Dio. Il profeta stesso sa di essere ambasciatore di un oracolo che non gli appartiene in prima persona, ma che egli è incaricato di trasmettere. Di fatto, poi, calandosi nei testi, tanto l'idea di rivelare qualcosa di nascosto che finalmente viene detto, quanto l'idea di parlare a nome di Dio o avanti gli avvenimenti, sono in tensione. Come dicevo, questa, da parte mia, è una riduzione che forse può essere utile.

Vorrei partire da un dato, per chiarire la distinzione tra profeta e mentalità profetica e apocalittico e mentalità apocalittica. La Bibbia ebraica si suddivide tradizionalmente in tre grandi settori: Torah, Neviim e Ketubim. "La legge, i profeti e gli scritti" è un ritornello che ritorna spesso ed è molto importante anche per l'analisi storica della percezione del testo sacro. Ritorna anche sulla bocca di Gesù: "la legge e i profeti", "Mosè e i profeti". Mosè è identificato con la Legge perché ne è l'autore, ma era un profeta (Dt 18,15), oltre che di stirpe levitica. Se egli era un profeta e se tutti i libri storici che noi conosciamo rientrano nella categoria dei profeti insieme ai libri propriamente profetici (gli altri scritti - i Sapienziali - sono una rimeditazione ed avevano un valore autoritativo molto inferiore), vuol dire che praticamente la storia ebraica è una storia di profeti. Sono i profeti che si fanno tramite della volontà di Dio di fronte al suo popolo, entrano nella storia del popolo e in una qualche misura la plasmano.

Ci saranno i primi profeti, che sono dei tipi piuttosto estatici, legati, quando il caso, agli antichi santuari del culto jahwista, ci saranno altri personaggi più ufficiali che agiscono a Gerusalemme, ci saranno, infine, i profeti della ricostruzione del Tempio, ma di fatto la storia è ritmata da queste personalità. Potete costruirne una dinastia, a partire da Mosè, attraverso quelle strane figure carismatiche che sono i giudici, per arrivare via via a Samuele, poi a Davide, profeta secondo la tradizione, sino ai grandi profeti ed ai profeti minori. Possiamo dare di questo fatto un'interpretazione di tipo teologico: è la parola di Dio che guida la storia del suo popolo. Egli, vero Signore, rimane in contatto col suo popolo attraverso questi ministri, questi prophetai, che partecipano alla vicenda del popolo, entrano in dialogo, talvolta anche drammatico, con le autorità, o col popolo tutto. Questa lettura di tipo teologico a me non basta, perché all'École Biblique cerchiamo anzitutto la concretezza storica, archeologica, etnografica, geografica, ed abbiamo riguardo ai testi un'attitudine non dissacrante, ma "domenicana": crediamo che la ragione possa sfidare la fede e la fede possa sfidare la ragione. Pertanto, proviamo a cercare un motivo storico: perché questa prospettiva nell'Antico Testamento?

Perché il Libro è il prodotto del Tempio. Se considerate le grandi figure profetiche, queste sono figure sacerdotali: Mosè è della tribù di Levi, suo fratello Aronne era il sommo sacerdote; Samuele vive nell'alveo del santuario di Eli; Isaia ha la sua rivelazione nel Tempio, davanti l'altare; Geremia si autodichiara appartenente ai sacerdoti di Anatot, sacerdoti un pò messi da parte, stirpe decaduta, ma, tanto o poco, lo era, e agisce nello spazio del Tempio; Ezechiele è sacerdote anch'egli. D'altronde, bisogna ricordare chi ci ha consegnato questo Libro, chi ha raccolto i documenti, chi ha creato il nucleo ed il quadro letterario della legge e della storia che leggiamo come Antico Testamento: in buona parte, con eccezioni, il Tempio.

Il Tempio era il centro della vita civile e religiosa almeno della Giudea, in rapporto col potere regale. Dobbiamo stare molto attenti a un trompe l'oeil cui la Bibbia stessa ci induce: che nell'Israele antico esistesse una separazione netta tra sacerdozio e regalità. Sarebbe l'unico caso nel mondo antico. Il cambiamento di prospettiva è dovuto al fatto che l'Antico Testamento, per come lo conosciamo noi oggi, è frutto di una rimeditazione abbastanza tardiva. Già nella figura di Mosè si opera la fusione delle due prospettive e, all'epoca dei re di Giuda, la dinastia davidica dettava legge nel Tempio. Un certo cambiamento interviene alla fine del travaglio iniziato con l'esilio babilonese (avvenimento che qualcuno mette in dubbio): saranno i sacerdoti a prendere il ruolo dei re. Le due funzioni si incrociavano nella concezione antica del potere come fatto sacrale e della sacralità come legata essenzialmente alla dignità del re. Noi ci meravigliamo di ciò, perché abbiamo elaborato una separazione quasi netta fra Chiesa e Stato; ma, se ci pensate bene, risentiamo ancora di questa impostazione. Il Papa stesso è erede di un titolo dell'imperatore romano ed è "Pontifex Maximus", titolo sacerdotale oltre che politico. In origine — forse, sin dai tempi delle palafitte-, un assessore ai lavori pubblici, incaricato di costruire i ponti sul Tevere, poi insignito di dignità sacerdotale.

Oltre a questo dato, che per il momento accantoniamo, c'è una ulteriore considerazione da fare: noi cristiani abbiamo nel canone delle Scritture un libro che chiamiamo Apocalisse, che è quello che ha dato il nome a tutta la letteratura apocalittica, a partire dalla sua prima parola (Apokalypsis Iesou Christou). Lo abbiamo sin dagli inizi riconosciuto come ispirato.

Mentre nella tradizione ebraica, ad esclusione del libro di Ezechiele (che in qualche modo è all'origine della mentalità apocalittica), del libro di Daniele nelle parti in ebraico e di alcuni testi sparsi qua e là (per esempio le due Apocalissi del libro di Isaia, che sono piuttosto tardive), tutto quanto abbiamo della letteratura giudaico-apocalittica è considerato apocrifo o non canonico. Si tratta di una letteratura rigettata; non solo non inserita nel canone, ma spesso nascosta, a tal punto che alcuni dei più antichi libri apocalittici, e dei maggiori, li possediamo oggi in traduzione latina, araba, siriaca o copta, ma non li possediamo più (o quasi) in lingua originale.

Sono stati i cristiani ad adottarli e a trasmetterli.

V'è una differenza fondamentale di formazione tra l'Antico e il Nuovo Testamento. L'Antico Testamento, nel suo nucleo più importante (Torah e profeti), è, come abbiamo visto, prodotto del Tempio. Il Nuovo può essere invece definito "letteratura popolare". Si sviluppa pian piano e solo a un certo punto si è creduto di istituzionalizzarlo in un quadro, in una lista di testi. All'inizio è una produzione spontanea, anche se già dai primissimi decenni del cristianesimo si nota la volontà di conservare dei testi (secondo la mentalità antica dell'"editore", rielaboratore di testimonianze). Oppure, molti testi che possono dirsi veramente apocalittici sono stati riscoperti negli anni '50 a Qumran. Ma ci troviamo in presenza di un gruppo in forte opposizione al Tempio.

Una prima caratteristica emerge: una letteratura, quella del Tempio, fatta per il grosso pubblico, per un rapporto con il potere regio, per la gestione del Tempio stesso. Talvolta, quando i grandi profeti si scagliano contro il Tempio, o contro i sacrifici, lo fanno non in modo da negare il sacrificio come tale, ma per arricchirlo di altri valori, più interiorizzati o sociali.

La letteratura apocalittica invece, e molto spesso, è prodotta da circoli che vivono in una certa opposizione rispetto al Tempio di Gerusalemme o che, comunque, non sono particolarmente interessati alla sua struttura sacerdotale.

Abitualmente si afferma che l'apocalittica si sostituisce alla profezia nel momento in cui viene meno una realistica speranza di dare risposta storica alle promesse dei profeti.

E questo è in parte vero, ma aggiungerei una considerazione: l'apocalittica interviene nel momento in cui tale risposta ha perso di interesse.

Pensate agli ebrei della diaspora, a quanti sono stati messi al margine, ai cristiani in dato momento. Pensate, soprattutto, ad un periodo in cui si sviluppa una mentalità di tipo fortemente spiritualista. Forse che la libertà politica di una città dominata dal Tempio è veramente la risposta alle grandi promesse di Isaia? È questo che voglio?

Questo è il vero nodo della questione.

Per di più, dopo decenni di regno degli Asmonei (circa 160 - 63 a.C.). Essi erano, almeno ufficialmente, di stirpe levitica: sacerdoti che assunsero il titolo regale. Furono spesso accusati di giocare un pò troppo con questo potere o di essere diventati portatori della cultura ellenistica e poi romana, pur essendo nati per contrastarla. D'altronde il loro regno fu voluto ed appoggiato dai generali romani, interessati a sminuzzare quello dei Seleucidi di Siria.

In un clima di tensione anti monarchico-sacerdotale si capisce come nasca una letteratura "alternativa" e come sorga, anche, uno dei fenomeni tipici dell'epoca a cavallo dell'era cristiana che, con linguaggio odierno, potremmo chiamare di forte laicizzazione, anche se non percepito come tale all'epoca. In concreto volle dire attirare sul laico (non appartenente alla stirpe di Levi) una serie, più che di prerogative, di doveri rituali propri dei sacerdoti. L'imporre abluzioni ripetute, regole di purità, a gente comune, come facevano i farisei, era in qualche misura considerarli partecipi di prerogative sacerdotali. Tanto più che gli stessi sovrani Asmonei avevano favorito un capillare diffondersi delle leggi proprie della Giudea, molte delle quali si giustificavano per la presenza del Tempio, anche oltre i confini della regione. Si verificò, così, una certa confusione degli statuti sociali, se non dei ruoli.

È lo stesso pericolo, molto ben avvertito dalla curia, dei movimenti medievali, fortemente ascetici, capaci di ridare al laico una sua dignità attraverso, per esempio, liturgie popolari: la via crucis dei francescani, il rosario dei domenicani nascono in questo ambiente, in parallelo o contrapposizione a una liturgia in latino che nessuno capiva più, per restare in ambito ortodosso.

Il rischio è che a un certo punto la gente faccia a meno del sacerdozio. Ma bisogna riconoscere ai farisei un merito storico. Quando il Tempio crollò, finirono i sacrifici ed il sacerdozio, furono gli unici a sopravvivere: il giudaismo di oggi è debitore del fariseismo del tempo di Gesù.

Cerchiamo ora, con un gioco dei contrasti, di enucleare alcune caratteristiche che possano identificare e distinguere sia il profeta che l'apocalittico.

Dicevamo: il profeta è presente nella vicenda storica, ne è protagonista. Soprattutto, crede che la soluzione del dramma presente sia infrastorica: promette che in tempo di debolezza politica, di assedio, di paura, di carestia, se si sarà fedeli all'ideale proposto dalla legge di Mosè, o se si seguiranno gli ordini dati dal profeta, le cose cambieranno in meglio.

Così, i profeti, un pò perché orientali, un pò perché antichi, un pò perché sacerdoti, agiscono come ogni politico: danno l'impressione che se si arriva, facendo fiducia alla loro persona, a risolvere quel problema, si risolveranno automaticamente tutti gli altri problemi, magari anche quelli personali.

L'apocalittico, invece, è ai margini della storia. Appartiene, molto spesso, a strati sociali che non hanno un rapporto diretto col potere, e questo influenza moltissimo anche il suo linguaggio che è volutamente criptico, sia perché egli non sa, sovente, di che cosa sta parlando (soprattutto quando vuol descrivere il futuro), sia perché parla a circoli ristretti. I profeti sono legati a una didattica di popolo e a una dialettica che possiamo definire di parte. Possono voler opporre i re al Tempio, diverse dinastie all'interno del Tempio, il profeta stesso, come rappresentante di una parte in lizza per la gestione del Tempio, alle altre parti, accusate, ovviamente, d'essere idolatriche, tralignanti, ecc.

Sono i profeti che, alla fine, influenzano quella lettura così negativa dell'esperienza monarchica davidica che troviamo nei testi storici dell'Antico Testamento, soprattutto nel Libro delle Cronache.

L'apocalittico, che appartiene invece a gruppi estremamente "selezionati", propende per un superamento nella continuità del presente politico e religioso del Tempio o di altre istituzioni. Ma un superamento non immanente alla storia. Ormai egli non crede più, e soprattutto non gli interessa più di credere, che ciò sia possibile.

Vengono posti in essere espedienti di tipo psicologico-letterario, o teologico se preferite, che permettono all'apocalittico di produrre tale superamento, e non stupitevi, poiché spesso nell'apocalittico si vede l'eroe della ebraicità, se il primo espediente lo mutua dalla mentalità ellenistica. Si tratta della concezione medio-platonica di un mondo "a due piani".

Secondo tale concezione, molto popolare all'epoca, il mondo di quaggiù è un mondo di apparenze, di copie, di povere riproduzioni, rispetto al mondo molto più vero che è presso Dio.

La macchina cosmica, tipica dell'apocalittica, si complica poi con l'inserzione dei cieli intermedi, dominati da esseri angelici. Al centro del cosmo, sta questa mela bacata che è la nostra povera terra.

Il teatro della realizzazione delle promesse di Dio, invece, sono i livelli superiori.

Tale impiantito è utile in vista di due argomentazioni (sfruttate anche dal cristianesimo). Primo: come confortare un manipolo di persone che (a Qumran, per esempio, in qualche grotta lì vicino) stanno aspettando l'arrivo dei romani o si trovano in disputa con altre componenti dello stesso ebraismo; come far loro sperare che riusciranno ad imporre la propria idea? Si fa come fanno i bambini: "io sono piccolo, tu mi hai picchiato però chiamo il mio papà che è più grosso del tuo!". Il papà è il piano superiore. Noi sappiamo che in cielo stanno miriadi di angeli, di arcangeli guidati da San Michele, che combattono contro miriadi di angeli e di arcangeli guidati da Belial o da Satana (chiamatelo come preferite), e, siccome quelli di Michele sono con Dio, vinceranno sugli angeli di Belial. L'esercituccio romano e i quattro gatti che noi siamo non sono fattori determinanti: chi determinerà la guerra saranno Michele e Belial. Quindi io sto tranquillo, o meglio, vado a farmi ammazzare come Zelota per le vie di qualche villaggio, ma ho la forza di farlo perché credo in una vittoria al di là di quello che di fatto vedono i miei occhi. Nel quadro, poi, di una certa alternatività rispetto al Tempio, posso parlare negli stessi termini: sono escluso dal Tempio di Gerusalemme? Mi auto-escludo? Ma io so che quella liturgia così rassicurante non è che una copia (qui entro veramente nelle cose in cui sono un pò specialista: la lettera agli Ebrei), che quella vera è celebrata in cielo ed io posso prendervi parte spiritualmente.

La persecuzione, la malattia, il male non sono punizioni per questa mia scelta, vengono dalla malvagità insita nella storia. Io sono già al di fuori della storia.

Altro problema per l'apocalittica è l'interpretazione dei profeti.

Leggendo l'Antico Testamento in maniera più onesta di quanto molto spesso facciamo noi (e questi lo leggevano seriamente, non in traduzione sdolcinata, ulteriormente sdolcinata dal predicatore di turno) si dicevano: "Ma queste promesse, quando si realizzano? E, se si realizzano, si realizzeranno come?". E fin qui il problema è già notevole.

Ma quando i profeti hanno sbagliato, il dubbio diventa enorme. C'è stato un caso in cui il profeta ha sbagliato: ce ne parla il Libro di Daniele. Esso è relativamente recente, anche se si propone come scritto all'epoca della deportazione in Babilonia. Di fatto è databile nel secondo secolo a. C. Chi lo scrive, si chiede: "Come è che il profeta Geremia (siamo nel capitolo 9 di Daniele) aveva previsto settant'anni di esilio e sono stati solo cinquanta?".

Ciò significa mettere in dubbio molto onestamente tutta la struttura della profezia, ritenuta infallibile. Per questo, Daniele si lancia in una lunga preghiera, che inizia così: "Nell'anno primo di Dario figlio di Serse, della progenie dei Medi, il quale era stato costituito re sopra il regno dei Caldei, nel primo anno del suo regno, io Daniele tentavo di comprendere nei libri il numero degli anni di cui il Signore aveva parlato al profeta Geremia e nei quali si dovevano compiere le desolazioni di Gerusalemme, cioè settant'anni. Mi rivolsi al Signore Dio per pregarlo e supplicarlo con il digiuno, veste di sacco e cenere e feci la mia preghiera e la mia confessione al Signore mio Dio".

Fa riferimento al cap. 25 del libro di Geremia ai versetti 12-13, in particolare al 12: "Quando saranno compiuti i settanta anni, io punirò il re di Babilonia e quel popolo - dice il Signore - per i loro delitti, punirò il paese dei Caldei e lo ridurrò a una desolazione perenne. Manderò dunque a effetto su questo paese tutte le parole che ho pronunziate a suo riguardo, quanto è scritto in questo libro, ciò che Geremia aveva predetto contro tutte le nazioni".

Se possiamo credere che la ricostruzione di Gerusalemme fu compiuta in settant'anni, la fine dell'esilio è avvenuta dopo solo cinquant'anni. Se, prima che tutto torni a funzionare a Gerusalemme, possiamo anche farne passare settanta o più, per la punizione dei babilonesi no. Quella è avvenuta, anche la storia ufficiale lo dice, intorno agli anni trenta di quel secolo VI a.C.

Ma un altro testo, in 2 Cronache 36,21, inserisce il concetto di "scontare i sabati", facili da interpretarsi come settimane: "Il re deportò in Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all'avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore, predetta per bocca di Geremia: "Finché il paese non abbia scontato i suoi sabati, esso riposerà per tutto il tempo nella desolazione fino al compiersi di settanta anni"".

Dopo la lunghissima preghiera, Daniele 9 continua: "Mentre io stavo ancora parlando e pregando e confessavo il mio peccato e quello del mio popolo Israele e presentavo la supplica al Signore Dio mio per il monte santo del mio Dio, mentre dunque parlavo e pregavo, Gabriele, che io avevo visto prima in visione, volò veloce verso di me: era l'ora dell'offerta della sera (notate anche in questo testo dei termini vagamente sacerdotali). Egli mi rivolse questo discorso: "Daniele sono venuto per istruirti e per farti comprendere. (...) Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo (mettendo insieme i due testi e giocando di interpretazione, non sono più settant'anni, ma diventano settanta settimane, quindi cominciano con l'essere settanta settimane di anni: sette per settanta fa quattrocentonovanta) e per la tua santa città per mettere fine all'empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l'iniquità, portare una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei santi. Sappi e intendi bene, da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane (quarantanove anni! Ho risolto il mio problema: prevedo settanta settimane, e tolgo i quarantanove anni che facevano problema). Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi. Dopo sessantadue settimane un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui; il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un'inondazione e, fino alla fine, guerra e desolazioni decretate. Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana (ecco l'ultima settimana: sessantadue più sette più uno, otteniamo le settanta settimane) e nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l'offerta; sull'ala del Tempio porrà l'abominio della desolazione e ciò sarà sino alla fine, fino al termine segnato dal devastatore"".

In altri termini, lo scrittore che si nasconde dietro a Daniele vive in un'epoca in cui di nuovo il popolo soffre oppressione. Egli riesce, moltiplicando, invece che settanta per un anno, settanta per sette anni, a coprire un lunghissimo lasso di tempo e a descrivere la storia passata sino alla fine dell'esilio, i quarantanove anni, poi, anno più anno meno, riesce a spiegare come previsto tutto il tempo intermedio di ricostruzione, e infine la persecuzione del suo tempo. Giocando un pò sulle date, è vero, ma la gente nell'antichità non teneva le agende anno dopo anno e non poteva controllare.

Di conseguenza, vedete, vien messo in atto un gioco di tipo interpretativo e attualizzante. Abbiamo pure notato in questo testo una caratteristica che conduce l'apocalittica dai suoi albori fino addirittura a Dante: per riuscire a capire la Scrittura o la storia c'è bisogno della mediazione di un angelo, c'è bisogno che dal piano di sopra arrivi la vera interpretazione. Daniele non ci riesce da solo, è necessario che all'ora del sacrificio della sera giunga un arcangelo, plani e gli dica le cose come stanno. Anche Dante, nella Divina Commedia, continua a svenire, cadere, ad essere portato di qua e di là, ha bisogno di un mediatore che gli spieghi tutto, Virgilio o Beatrice. Mezzi letterari che esprimono il bisogno di andare al senso nascosto delle cose.

Ma vedete pure che abbiamo a che fare con la letteratura tipica di un piccolo gruppo alternativo, come certe sette che ancora oggi esistono.

Un'altra caratteristica legata a questa idea di rivelazione nuova di un testo antico, nei libri più propriamente apocalittici, è la pseudonimia, l'attribuzione ad un autore fittizio, in genere un personaggio del passato.

La funzione dell'attribuire il libro che sto scrivendo io oggi ad un periodo o ad un autore, spesso leggendario, dell'antichità, o legato alla storia antica, serve a dare l'idea di una rivelazione che era già conosciuta in antico, che ha lo stesso valore delle rivelazioni ufficiali scritte, lette, proclamate nel Tempio o nelle sinagoghe. Devo rifarmi forzatamente alle origini della rivelazione per far vedere che ne esiste una parallela di cui adesso sto svelando il segreto.

C'è anche, se volete, una certa umiltà dell'autore pseudonimico. Egli attribuisce la sua opera all'ispirazione di un altro nel grande passato. Ma c'è soprattutto l'idea di un libro scritto in maniera definitiva, cui nulla può essere aggiunto, e che si tratti di leggerlo passando al piano di sopra.

Vedete come è cambiata la mentalità, non si afferma più: "Se voi sarete fedeli alla legge, Nabucodonosor se ne andrà; se voi sarete fedeli al vostro Dio, l'assedio di Sennacherib finirà", ma: "Tutto è già scritto, non potete farci niente". Quella meravigliosa visione dell'Apocalisse, un volumen (rotolo) scritto dentro e fuori, esprime la certezza che non ci sia più spazio per scrivere nulla nel rotolo della storia.

Così, io attribuisco il mio libro a Mosè, a Isaia, ad Adamo ed Eva, a Enoc (che è partito per il cielo in un versetto della Bibbia: come appare sparisce, nessuno sa dove sia andato a finire), e dichiaro che si tratta di una sua visione. Il mio finto autore ha visto questo rotolo, gli è stata narrata una storia ormai immodificabile, egli me la racconta e io ve la racconto a mia volta, prendendone le vesti.

Fino a ieri, ve la racconto come la conosciamo tutti. Perciò dite: "accidenti, questo Enoc ci aveva preso". Quindi, da oggi in poi, continuo dicendo quello che penso io, e voi direte: "ci ha preso fino adesso, ci prenderà anche nel futuro"; ma è facile prenderci quando le cose sono già passate.

Questo modo di procedere manifesta, da un lato, l'umiltà dell'epigono, dall'altro il gioco letterario, ma fa soprattutto riferimento ad una coscienza che è cambiata in maniera radicale: non esiste più, fra Dio e l'uomo, la possibilità di alleanza paritetica, non si può più dire: "Se tu fai, io farò", ma "io farò, che tu lo voglia o no, il tuo problema è da che parte stare".

È per questo che gli apocalittici utilizzano il linguaggio dei profeti, ma con uno spirito completamente diverso.

Si assiste ad un salto proprio del rapporto metaforico dell'immagine.

Il profeta, vi ho detto scherzando un pò, è un politico: deve calcare le sue promesse per farvi desiderare quel che propone. Se al centro del suo interesse sta una certa pacificazione della città ed egli vorrebbe che Gerusalemme fosse un importante nodo di commercio, se questo è il suo desiderio, non ve lo presenta così (sarebbe un pessimo pubblicitario), ma proclama: "Tutti i popoli verranno, faranno un banchetto su questo santo monte": fateceli stare voi se ci riuscite, sulla cima di un monte! Crea tutta un'imagerie, ma per lo più è il livello immaginario alto per descrivere un fatto molto più banale. Le prime profezie di Isaia (quello vero, quello antico, i capitoli dal 6 in poi) parlano del nuovo re. Ma il profeta lo presenta come se fosse chissà cosa: in realtà vuol solo comunicare la speranza che il prossimo sovrano sia una persona decente, onesta, che si adoperi per il bene del suo popolo.

All'apocalittico non interessa più il livello basso, crede che le immagini del profeta siano il livello basso per descrivere qualcosa di molto più ampio. Non siano una metafora dello storico, ma una metafora dell'extra-storico.

Così, per lui, l'immagine del profeta ("Tutti i popoli verranno su questo santo monte a banchettare"), è un'immagine non certo di quello che il profeta sperava, una certa rilevanza politica di Gerusalemme nel contesto immediatamente vicino-orientale: per lui è una metafora di qualcosa di molto più grosso. Neanch'egli crede che vadano tutti lì a banchettare, ma ci vede un regno che si realizzerà solo in un eschaton al di fuori dalla storia.

Oggi siamo in tensione tra apocalittica e profezia, un pò perché le profezie immanenti del nostro tempo sono profezie che hanno mostrato la corda, la loro fragilità, ma che pure rimangono, perché siamo tutti coscienti di dover costruire la nostra storia. Eppure, proprio per questo, esiste una fuga nell'apocalittico, un vedere le speranze umane, celate nelle ideologie o nelle profezie del nostro tempo, per quanto laiche ed immanenti fossero, come metafora di ben altra felicità. Poi, magari, questa felicità ciascuno se la cerca nel suo intimo, nella sua psiche, nel suo profondo.

Credo che si possa concludere questa nostra riflessione chiedendoci da che parte sia opportuno stare, se convenga essere apocalittico o profetico. Per parte mia, credo che ciascuno sia più o meno come nasce (Borges dice che o si nasce platonici o si nasce aristotelici, ed è vero, per molti aspetti. Io sono nato aristotelico, quindi son più dalla parte della profezia, dell'immanente, del "da costruirsi", del "da capirsi", almeno nella storia), però credo pure che la parola definitiva, per noi cristiani almeno, sia la parola di quel buon apocalittico che era Gesù.

Gesù era abbastanza apocalittico per dire ai suoi discepoli che ammiravano i pietroni del Tempio (che si ammirano ancora oggi, tonnellate di pietra): "Sentite, questo cade!"; ma abbastanza profeta per affermare: "Prima di tutto, la fine verrà dopo quello che hanno detto i peggio apocalittici, dopo che la luna sarà caduta, dopo che ci saranno state guerre, distruzioni, devastazioni: dopo!". Che è come dire: "Ragazzi, la storia continua! Hanno ragione gli apocalittici a promettere che verranno gli angeli a fare giustizia; appunto ... aspettate gli angeli, non fatela voi per il momento. Non strappate il grano con la zizzania e sappiate che il regno dei cieli è presente, che il Signore verrà, tornerà dal viaggio, distinguerà le pecore dai capri, ma che il Signore è qui già adesso, in quelli in cui si riconosce: nel prigioniero, nel derelitto, in quanti soffrono!".

Dibattito

Ho l'impressione che le apocalissi nascano nei momenti di crisi: le cose vanno male e allora si cerca riparo al piano superiore, è possibile?

La tua affermazione mi sembra corretta, ma il problema è definire quali momenti non sono di crisi. Il gioco della "crisi" nasce dal modo di esprimerci: ciascuno di noi è in crisi dalla nascita, si tratta di speranze e di attuazione di queste speranze. Noi ci siamo tenuti, parlando di apocalittica e di profezia, nell'ambito del linguaggio religioso; quindi, di speranze che fanno riferimento ad un essere superiore il quale, in qualche misura, deve intervenire nella storia. In questo senso sono tutti momenti di krisis, di giudizio, in cui giudico fino a che punto la mia speranza è una buona speranza, una vera speranza, e fino a che punto Dio è con me in questo cammino. Le risposte sono duplici. È vero che quando, per esempio, vi è una persecuzione, la mentalità apocalittica tende più facilmente ad esprimersi. Perché? Perché la persecuzione, soprattutto ad un antico, poneva un dramma immenso. Pensate ai primi cristiani che non erano stati battezzati come noi da piccoli: a persone che, ad un certo punto, per una insoddisfazione, o per aver ascoltato i profeti dell'Antico Testamento, o per essersi stufate del culto di Diana ad Efeso, per ventimila altri motivi, decidono di farsi cristiane. Si trovano ad avere rotto con la loro tradizione, spesso con la loro famiglia o, comunque, con il loro passato e possono affermare: "L'ho fatto perché ci credevo!". Sopraggiunge la persecuzione, e uno dice: "Ma Dio mi dà ragione o no? Perché può darsi che io abbia sbagliato". L'apocalittica, in molti casi, è una risposta a questo dramma. Secoli di fedeltà più o meno supposta non dovrebbero portare ad un adempimento delle promesse di Dio? Vedete, il linguaggio del profeta è un linguaggio sempre piuttosto infantile: "se ..., allora ...". Ma, se tu fai se e poi non c'è l'allora? A quel punto è ovvio che il profeta ha ancora spazio per il suo gioco, può ancora dire: "sì, hai fatto quel che ti aveva detto il Signore, ma non lo hai fatto del tutto bene". A volte mi scandalizzo quando, di fronte a certi drammi storici, si sentono certi discorsi: "ecco queste cose sono successe perché ci era stato detto di pregare e non si è pregato abbastanza!" Voi credete che Dio sia lì ad aspettare il quarantasettesimo "Gloria", quando ci sono di mezzo bambini e masse sterminate; è questa la mentalità di Dio? Questo è un pò l'infantilismo profetico, e l'apocalittico si pone il problema perché è un tipo onesto, e ci crede, ed arriva a dire: "no!". All'estremo dell'apocalittica, ma dell'apocalittica per come la intendiamo noi, nel nostro linguaggio (cosa intendiamo per apocalittico? il distruttivo), si afferma: "che voi facciate questo o quello, seguiate la legge, non la seguiate, è un problema vostro, sta a voi stare dalla parte giusta. Sappiate che il mondo non andrà mai bene, anzi c'è da pregare, sperare, volere che vada di male in peggio, così la finiamo e passiamo tutti al piano superiore!". Quale delle due posizioni? (Io le sto prendendo in giro tutte due proprio per far vedere che credo a tutte e due; perché, di fatto siamo sempre in tensione fra queste due proposte, se abbiamo fede e anche se non abbiamo fede). Sono tutte risposte alla crisi e tanto di cappello al profeta e all'apocalittico, perché hanno il coraggio di porsi il problema e di fare krisis, giudizio.

Un esempio è Daniele, che si pone onestamente di fronte alla Scrittura (perché all'epoca di Daniele sta già diventando Scrittura). Ma interrogarsi così onestamente sulla Scrittura vuol dire anche far serpeggiare il dubbio. Siamo in una fase in cui la Scrittura è aperta, non è ancora tutta finita, però è ancora gestita da Gerusalemme. Per capirla non bisogna chiudere gli occhi, ma pregare, riconoscere il proprio peccato (ciò che fa Daniele), e all'ora del sacrificio (vedete che salta sempre fuori il Tempio, in un modo o nell'altro) verrà l'angelo e sarà lui a spiegare tutto.

Daniele ha avuto bisogno dell'angelo per capire: e noi oggi dove troviamo il nostro angelo?

Noi oggi, innanzitutto, dovremmo essere impegnati a scrivere un'Apocalisse, ma, se uno non ritiene di fare un lavoro del genere ... Credo che per i cristiani l'angelo sia lo Spirito che vive nella Chiesa e che a vari livelli di autorevolezza (mettete all'ultimo gradino il biblista) aiuta nell'interpretazione del testo.

Per i cristiani è lo Spirito di Cristo che interpreta l'Antico Testamento, anche se pure noi abbiamo dei problemi: il principale è quello del ritorno di Cristo. Lo ha un pò risolto lui, o meglio, i testi del Nuovo Testamento (ma qualcosa di suo ci deve essere dentro): ci hanno insegnato che il cristianesimo è realtà della presenza di Cristo come qualificante l'attesa del suo ritorno e, su questo piano, la sua presenza è interpretativa della storia. Il suo modo di essere, il suo Spirito, la sua personalità.

È evidente che chi fa capire la Scrittura, la pienezza della Scrittura, è lo Spirito di Cristo, la personalità di Cristo, la logica di Cristo che entra, filtra!

In fondo, da questo punto di vista, gli autori umani del Nuovo Testamento ebbero il problema degli apocalittici: "Come appropriarmi di una Scrittura tradizionale, interpretandola senza contraddirla, però tutto sommato facendole dire tutto il contrario? Come fare?" Per i cristiani è la presenza dello Spirito che svela il mistero profondo.

Se considero le cose da storico, non da credente, posso dire che sì, in effetti, per la teologia cristiana, la Chiesa come presenza "istituzionale" dello Spirito nel suo momento magisteriale, ma anche ogni credente, ogni comunità, ritiene di interpretare correttamente quel disegno nascosto nei secoli da Dio di cui la lettera dell'Antico Testamento era solo un'ombra, un'anticipazione.

Per cui quando l'Antico Testamento dice: "Se hai un nemico tribale, mazzate!", cosa vuole dire in realtà? Un Padre della Chiesa direbbe: "Mica un nemico tribale: ma il tuo egoismo, il tuo nemico interiore, la tua aggressività". Il risultato sarà: "se tu hai combattuto il tuo nemico, l'egoismo aggressivo, non darai mazzate".

Siamo abituati a vedere nell'Apocalisse, nei libri profetici, questo alone divino: tu hai spinto un pò la vite, mi piace anche questo aspetto, cioè vedere in questi scritti lo sviluppo tutto umano e lo sforzo di capire, e proprio l'apocalittica è il massimo sforzo della mente di penetrare il divino. Io rimango dubbioso su alcune cose: Tessalonicesi è profezia o apocalittica? in Isaia siamo in profezia o in apocalittica? Perché è meravigliosa la distinzione che hai fatto tra profezia che ha il senso della storia, che è un senso critico, vero e saggio, e invece poi l'apocalittica che ondeggia in quello che è l'irrazionale o quasi. Gioele è apocalittica o profezia, Daniele stesso è un profeta o siamo nell'apocalittica?

Quando si penetra nel testo le cose entrano spesso in tensione: è come quando, facendo storia della letteratura italiana, parliamo di romanticismo, o facendo storia dell'arte parliamo di neoclassicismo. Diamo alcune stigmate-base di che cos'è il romanticismo o di che cos'è il neoclassicismo in arte, poi, in concreto, non esiste una chiesa che sia solo neoclassica, che non abbia conservato nessun elemento barocco, e non esiste nessuna chiesa barocca che non abbia già qualche allusione al neoclassico. Nel concreto, un testo non rientra mai perfettamente in una categoria. Queste categorie (ma ho preferito parlare di mentalità, di mutazione storica di una mentalità e di un modo di fare letteratura, di un linguaggio), servono più che altro per capirci. È vero che abbiamo dei libri più propriamente apocalittici, come abbiamo dei libri più chiaramente profetici. Il profeta più profeta di tutti, secondo me, è proprio Geremia, che si sporca le mani anche con le scelte politiche da farsi in quel momento particolare. La sua idea era: "ci troviamo tra due poli, Egitto e Babilonia, e qualcosa va pur fatta: voi volete andare con gli egiziani, io ho paura che Babilonia arrivi e ci distrugga la città". Ovviamente, tutto questo viene da lui vissuto in una dimensione religiosa, come abituale nell'antichità. Salvi gli estremi, tutto il resto è molto sfumato. È vero che, più ci addentriamo in certi ambiti e in certi tempi a ridosso del periodo neotestamentario, più la produzione apocalittica aumenta, ed è altrettanto vero che il giudaismo del Tempio prima e del sinedrio poi questi libri li hanno messi da parte. Se li abbiamo è perché esistevano le ghenizot: la ghenizah era un deposito dove venivano messi i libri che nessuno doveva leggere. È chiaro che questi elementi storicamente palpabili esistono, ma poi, quando si entra nel testo propriamente detto le cose cambiano. Tessalonicesi è apocalittica? San Paolo ha aggiustato il tiro sulla faccenda della risurrezione almeno quattro volte, perché egli stesso si è reso conto di certi problemi: passa il tempo, la gente muore, i corpi si corrompono, e uno con che cos'è che risorge? In 1Ts afferma che saremo vivi al ritorno di Cristo e risorgeremo col nostro corpo, ai Corinti dice che diventeremo dei corpi astrali, poi descrive il nuovo corpo come una tenda che ricoprirà il vecchio. Lui stesso rimedita le cose, se all'inizio è un perfetto fariseo, teologicamente parlando, cioè crede nella risurrezione corporale, pian piano sviluppa un altro tipo di ideologia avvicinandosi di più alla mentalità ellenistica. Ma siamo ancora nell'ambito, sostanzialmente, di una linea apocalittica. La resurrezione dei corpi, o della persona, o la vittoria sulla morte: questo evidentemente è un fenomeno parallelo a quello apocalittico, ma arriva alla stessa conclusione. Come dicevo, per certi aspetti, la mentalità apocalittica conduce ad affermare: "la storia andrà comunque male, il problema è da che parte tu stai"; porta, quindi, ad un estremo individualismo. Il cammino dell'altra problematica, "come e chi sarà premiato?", deve passare da una mentalità corporativa ("se tu popolo sarai fedele arriverai alla meta che Dio ti propone") a una mentalità individualistica, cosa già iniziata nei grandi profeti (non individualistica nel senso negativo, ma valorizzante la responsabilità individuale). Questo cammino è andato avanti in parallelo, ma poi si è posto un problema: "com'è che, se il premio è dato su questa terra, il giusto non fiorisce come palma - checché ne dica il Salmo - e il ricco sta benissimo! Com'è che in questa valle di lacrime se la cava molto meglio chi ha imparato a nuotare?" Ecco la risposta: la resurrezione. Ma è un modo per rilanciare il problema, per rimandarlo, perché qui, finché uno non è morto, puoi dire: "É stato così cattivo, prima o poi, sarà punito"; ma se poi muore a novantotto anni ricco sfondato, i suoi figli gli vogliono bene, dici: "Ma accidenti!". Allora si rimanda tutto a dopo la morte.

Sono due problemi che corrono in parallelo. Ora, perché cerco di mostrarvelo facendo il cinico? Per far vedere che Dio ha condotto attraverso la sua parola (o, se preferite le cause seconde, che si è realizzato all'interno di questo fenomeno letterario) un grosso sforzo per precisare i termini.

Per altro, con la chiusura della Bibbia, non è mica finita: pensate a tutto il dramma, il problema dell'esistenza di un Purgatorio. Ci si è arrivati già in pieno Medioevo, o quasi al termine del Medioevo, ed ancora con precisazioni successive. Perché c'è bisogno di un'attività dello Spirito che continui a rispiegare, a riaprire il libro, a tirarne fuori delle cose; perché c'è bisogno anche dell'attività dell'esegeta, che non é lo Spirito, che cerchi di ri-rendere presenti le problematiche e di far capire i testi per quello che vogliono dire, di dare degli strumenti alla ricerca scientifica (per quanto riguarda gli scienziati, che sono pochi - grazie a Dio - per ciò che riguarda la Bibbia), ma soprattutto alla ricerca personale, esistenziale, comunitaria su questo testo.

Una certa mentalità apocalittica portata all'estremo, può aver generato dei fondamentalismi antichi e nuovi?

Sì, però manterrei per "fondamentalismo", come parola, il suo senso proprio: il fondamentalismo è un metodo di lettura della Scrittura. Storicamente l'apocalittica in ambito giudaico è stata la letteratura ufficiale della violenza religiosa e politica: perché? È evidente che, se tutto deve crollare, il tuo interesse individuale si perde nel "da che parte stai". Come dimostri da che parte, realmente, stai? Buttandoti corpo e anima nell'azione che credi Dio ti proponga: lo zelotismo è molto influenzato da una mentalità di tipo apocalittico. Può sembrare strano. Negli ultimi centocinquant'anni, una grande molla che ha spinto a dare anche fisicamente la propria pelle per un ideale politico è stato il marxismo, il quale, nella sua dottrina, afferma che le cose vanno avanti inesorabilmente grazie allo sviluppo dialettico e che quindi non c'è niente da fare per l'individuo. Ma questa idea ha portato i Che Guevara al sacrificio. Anche, in tal caso, credo che si tratti, nell'individuo o nei gruppi, di modi di reagire alla realtà, che non hanno molto a che fare né con la profezia né con l'apocalittica. Però è vero che i gruppi fortemente fanatizzati sono anche fortemente influenzati da una mentalità di tipo apocalittico. Tra l'altro, essa nasconde un rifiuto profondo del mondo, del presente, in quanto insoddisfacente. Ora, un rifiuto del presente, molto spesso, lo è di quel presente che è diverso da me. Se l'angoscia che mi è data dal presente è in realtà dovuta al fatto che esiste qualcuno che non ha i miei stessi puntelli psicologici, reagirò in maniera fanatica. Questo non toglie che uno possa essere anche fanatico nella mentalità più o meno ricattatoria che abbiamo descritta come "profetica". Se mi dico: "Dio ha detto che se saremo fedeli alla sua legge tutto ci andrà bene! Io, personalmente, sono fedele alla sua legge, però non va bene niente; bisogna allora che qualcun altro non sia fedele: vado a cercare chi è, lo brucicchio e risolvo il problema". Questa è la mentalità, anch'essa passabilmente fanatica, tipica delle inquisizioni. Il fanatismo è un pre-supposto. Quanto al fondamentalismo, esso ha un motto: leggere il libro ad pedem litterae, che vuol poi dire non leggerlo affatto, il più delle volte. Avete visto, Daniele non si nasconde i problemi posti dal testo biblico, fa l'esegeta. Solo perché ha letto Geremia si pone il problema. Voi mica la sapevate la storia dei settanta e dei cinquant'anni, perché non avete mai letto con attenzione quel brano, lui invece l'aveva letto, e si confronta con esso come lettore aperto al dubbio.

L'apocalittico è uno scrutatore del testo: se voi prendete la Bibbia di Gerusalemme e guardate l'apparato, ricchissimo, dei riferimenti incrociati con altri libri, al lato del testo (i famosi passi paralleli) e confrontate l'Apocalisse di Giovanni con altri scritti, vedrete che questi riferimenti sono tantissimi; è tutto un incrocio di immagini dell'Antico Testamento, soprattutto profetiche, riciclate e rivitalizzate.

Parleremo della lessicalizzazione (catacresi, è il termine tecnico): quando un'immagine nata per colpire, diventata poi talmente abituale che la si usa creando degli assurdi linguistici (quando la TV ci parla di un "vertice triangolare", ma un vertice è un punto, non può essere triangolare per definizione), o delle "convergenze parallele", usa questo linguaggio volutamente. È perché ciascuna espressione ha un senso traslato (vertice = incontro al vertice; triangolare = tre nazioni, tre gruppi, tre sindacati, tre partiti di cui si sono incontrati i capi, i vertici) e tali sensi possono essere accostati: di tre gruppi si sono incontrati i capi. Uso due immagini talmente lessicalizzate che la gente mi capisce anche se le accosto in nuove formulazioni.

È la stessa combinazione che troviamo in Apocalisse: immagini ormai stereotipate che si possono unire, perché in realtà metto insieme i concetti: l'immagine è solo un veicolo, non ha più contenuto immaginifico. È una delle caratteristiche del linguaggio apocalittico, un linguaggio da piccoli gruppi, in parte liturgico, evocativo: è un linguaggio, diremmo oggi, da settari.