Il Linguaggio delle Apocalissi
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Cinque anni dopo ...

Paolo Garuti O.P.
Associazione culturale AMRITA - Modena 3 marzo 2001

Il titolo di questo incontro contiene tre parole che vale la pena di spiegare subito.

La prima, che delimita il campo del lavoro di questa sera, è la parola linguaggio: cercherò di introdurvi alle problematiche che riguardano il modo di esprimersi dell'Apocalisse di Giovanni e, in genere, della letteratura apocalittica, intendendo con letteratura apocalittica - ed è la seconda parola che merita di essere spiegata - quella letteratura che, avendo già qualche accenno in quello che noi chiamiamo l'Antico Testamento, nei libri di Ezechiele e poi, in maniera più sviluppata, nel libro di Daniele, fiorisce, però, in tempi più recenti, soprattutto a cavallo dell'era cristiana, vale a dire dal I sec. a.C. fino al II sec. d.C. Una letteratura che, a parte l'apocalisse di Giovanni per noi cristiani, ed alcuni brani apocalittici inseriti nei libri di Isaia, di Ezechiele e del già citato Daniele, per quanto riguarda l'ebraismo è una letteratura marginale. Un fenomeno che va subito segnalato: chi ha conservato buona parte della letteratura apocalittica sono stati i cristiani; possediamo molti di questi testi non più in ebraico, ma in traduzione siriaca, latina, araba. Recentemente abbiamo ritrovato alcuni testi apocalittici a Qumran, ma sono marginali rispetto sia all'ebraismo ufficiale del Tempio (fino al 70 d.C. e senz'altro fino al 132 d.C.) che al giudaismo rabbinico come si è andato sviluppando successivamente. Una letteratura, quindi, sospetta, almeno all'interno dell'ebraismo, e anche in casa cristiana divenuta sospetta più tardi.

Il terzo termine è storia; forse, il più problematico. Tutti parliamo di storia (io vivo in una casa, in un convento-scuola, in cui abbiamo come bandiera il metodo storico di indagine sui testi), però la parola in sé, anche se molto utilizzata, è fra le più problematiche del nostro linguaggio: perché? Perché, siamo portati a cercare delle costanti, o almeno la ripetibilità di certe situazioni, in modo da creare quella che potremmo chiamare una filosofia della storia, o una scienza della storia. Quando facciamo indagine sul passato, avendo quei pochi elementi che la letteratura antica, o l'archeologia, o la cultura popolare ci trasmettono, cerchiamo di creare dei quadri basandoci su analogie fra una situazione e l'altra; solo che nella storia l'imponderabile è presente in misura insostenibile. Dai sogni di Vico fino al materialismo dialettico, l'uomo ha cercato delle costanti che gli permettessero di fare della storia esattamente come si fa scienza in altri campi, dove, data una connessione fra causa e possibile effetto, a parità di condizioni, si produce quell'effetto. Cosa che, invece, nella storia non è. Da qui il problema della definizione di alcune costanti.

Per noi, "apocalittico", oltre che fare riferimento evidente al libro dell'Apocalisse, per come lo conosciamo, è di solito sinonimo di distruttivo da un lato e di futuro dall'altro.

In realtà queste due caratteristiche non sono specifiche del linguaggio apocalittico, ma del linguaggio profetico, il quale non coincide con il linguaggio apocalittico, che ne è uno sviluppo in quanto determinato da un cambiamento di mentalità. Questo è vero all'interno dell'Antico Testamento, ma può essere vero in moltissime situazioni, ivi comprese certe situazioni del nostro vivere quotidiano, o, se non del nostro, di certe parti di questo mondo.

La mentalità profetica è una mentalità condizionale; è un pò, se volete, la mentalità, o il linguaggio, di tutti i politici: se voi farete questo, ne conseguirà questo. L'apocalittica, invece, nasce dalla delusione rispetto al linguaggio condizionale, dall'idea che, comunque ci si comporti, le cose andranno avanti in maniera più o meno automatica. Di solito, nei testi apocalittici, procedono verso il peggio: da un passato ideale - un'epoca dell'oro — progressivamente, per l'agire di forze malefiche all'interno della storia il cui potere si va ampliando gradualmente, le cose non si possono condizionare e andranno comunque male. L'unica scelta possibile è da che parte stai tu. Portando quest'immagine all'estremo, se sei un vero apocalittico, ti auguri che le cose vadano di male in peggio, così la finiamo il più presto possibile, e si passa ad una storia migliore.

Un meccanismo linguistico su cui l'apocalittica si basa, proprio in quanto erede della profezia, ma con un cambiamento di mentalità - la perdita cioè di speranze concrete di risoluzione di situazioni concrete - è quella che, in retorica come in linguistica, chiamiamo catacresi, o lessicalizzazione delle metafore. Vi sono certe immagini, certe metafore, certi simboli, che, a forza di essere utilizzati, perdono il loro rapporto con il simboleggiato, non stanno più al posto di un'altra cosa, ma finiscono per entrare quasi nel linguaggio comune: dico quasi, ed è il quasi che è importante. L'esempio tipico che si fa a scuola è la parola moneta. È utilizzata direi dai tre quarti dell'umanità: moneda, money, monnaie...; ma fu, all'inizio, una metafora: la zecca, a Roma, era vicina al Tempio di Giunone Moneta: si diceva moneta per dire che veniva fabbricata vicino a quel Tempio, come si dice Quai d'Orsay per il ministero degli esteri francese, o la Farnesina per quello italiano, o Palazzo Chigi per dire la presidenza del consiglio. Si perde la coscienza della metafora iniziale. Nel caso della parola moneta, questo è avvenuto in maniera totale; in altri casi, certi simboli, certe metafore, certe immagini, finiscono coll'entrare nel linguaggio ancora un pochino cariche del loro valore di immagine, ma avendo perso, in buona parte, il loro valore simbolico iniziale: sono entrate, cioè, a far parte di un lessico. Non necessariamente del lessico di tutti, talora di un lessico specializzato, proprio ad un determinato gruppo.

Il che permette quel secondo fenomeno, tipico del linguaggio apocalittico che è la cosiddetta combinazione simbolica, o struttura simbolica, la quale può avvenire con modalità continua, o modalità discontinua.

Cosa intendo per struttura simbolica con modalità continua? La parabola. Una parabola, che non sempre ha contenuto apocalittico (esistono però delle parabole apocalittiche), in cui ad ogni elemento della realtà concreta che io voglio descrivere attribuisco un simbolo che prendo da una tradizione, un simbolo che oramai si è lessicalizzato, e vado avanti nella mia descrizione utilizzando questo gioco simbolico. È quanto avviene in Apocalisse di Giovanni, quando parla di Roma: non vuole parlare direttamente di Roma, e allora la chiama Babilonia. Questa parola "Babilonia" viene dalla letteratura profetica: Babilonia è la città devastatrice, città oppressiva, città disumana, città basata su soli rapporti d'interesse: città falsamente religiosa. Se prendo questo elemento, lo attribuisco a Roma e vado avanti coerentemente, avrò Roma = Babilonia, Babilonia = la prostituta (altro elemento della tradizione profetica, che era stato usato per descrivere Gerusalemme), perché la città che si basa su rapporti meramente materiali (così la vede l'autore di Apocalisse di Giovanni) e falsamente religiosi, dunque, città idolatrica... e avanti così, con tutta una simbologia tradizionale, applicata in maniera continua (vesti sontuose, rosso sangue, posizione seduta da regnante).

Abbiamo invece delle strutture simboliche discontinue, in cui i simboli non compongono un insieme coerente. Sono strutture talmente complesse da essere difficili da immaginare: il carro su cui Dio si presenta in Ezechiele. Dio si presenta su un carro... va be', questa è una cosa abbastanza comune: dall'Egitto fino all'Anatolia, gli dei incedono su carri. Però questo carro ha quattro ruote dirette verso i quattro punti cardinali. Ovviamente, dobbiamo decodificare questa struttura cosiddetta discontinua, inimmaginabile, tenendo presente che sono oramai simboli entrati nel linguaggio; dobbiamo considerare ognuno di quei simboli e cercare di decodificarlo e, poi, mettere insieme i concetti che questi simboli nascondono, non i simboli in quanto tali.

Si pongono però, tanto per la simbologia a struttura continua che per quella a struttura discontinua, alcune questioni. Una in particolare è relativa al valore metonimico dell'allusione, o della citazione. Buona parte degli elementi che l'apocalittico combina tra loro - il caso più classico sono gli animali compositi (come quello famoso presentato da Woody Allen: un animale mitico con testa di leone, corpo di leone, zampe di leone, coda di leone, denti di leone..., ma non necessariamente dello stesso leone!), avete anche nella simbologia classica, anche nell'ambito che poi verrà definito pagano, che so, l'idra, con varie teste, teste di animali diversi - sono allusioni: allusioni letterarie che appaiono come la punta rispetto a un iceberg. Il gruppo che ascoltava, che aveva elaborato questo linguaggio, percepiva la punta dell'iceberg ma sentiva anche l'iceberg, cosa c'era sotto. Noi, molto spesso, facciamo fatica a ricostruire l'iceberg. Vi faccio un esempio tratto dalla nostra storia, oramai non più recente: l'onorevole Moro fece un discorso ad un convegno di democristiani in cui cominciò a parlare di un'apertura a sinistra, di un'alleanza coi socialisti; l'onorevole Andreotti lo chiamò "Cauti connubii". Per capire la battuta potrebbe bastare il sapere un poco di latino o andare per assonanze: "È un connubio, quindi un matrimonio, quello tra socialisti e democristiani, da farsi con cautela". Siccome l'onorevole Moro era noto per la sua cautela, questo è un primo livello di interpretazione. Ma non si ride per questa frase. Invece, qualcuno all'epoca rise: perché? Perché Pio XII aveva fatto uscire un testo dedicato al matrimonio cristiano dal titolo "Casti connubii" - del matrimonio casto, ovvero del matrimonio cristiano -; ai gesuiti veniva attribuita da secoli la famosa frase: "Non caste sed caute" (non castamente ma cautamente), come emblema di un certo loro pragmatismo; ora, combinando tutto ciò, si capisce qual era il giudizio di Andreotti: il discorso dell'onorevole Moro non andava esattamente nella stessa direzione della supposta purezza ideologica che poteva essere attribuita a Pio XII; l'onorevole Moro era, sì, cauto, ma cauto come i gesuiti, cioè un pò pragmatista; e, in fondo, all'onorevole Andreotti in quel momento quel discorso non era poi piaciuto alla follia. Questo è l'iceberg che noi, quarant'anni dopo, abbiamo dovuto ricostruire, poiché la battuta di per sé non aveva nessun senso, penso, per alcuni di voi.

Metonimia è quell'espediente retorico per cui si nomina, fra l'altro, la parte per il tutto (la vela per la barca, "gare di vela"), scegliendo spesso un elemento caratteristico e diversificante. Lavoro di selezione che esprime un giudizio per contrapposizione ("a vela" = "non a motore" = in modo più sportivo, meno inquinante, più umano e faticoso, ecc.). Come nel caso della battuta di Andreotti, il gioco metonimico può stratificarsi in più livelli. Se diciamo "trasporto su gomma", in contrapposizione a quello su rotaia, prima operiamo uno scambio metonimico materia per oggetto (gomma per pneumatico), poi quello parte per il tutto (pneumatico per camion), e diamo l'idea di un modo di veicolare le merci senz'altro più elastico e flessibile di quello ferroviario, ma anche più artificiale e "sporco", fisicamente e moralmente (per il rapporto fra gomma e petrolio, fra petrolio, benzina e inquinamento, fra petrolio e multinazionali, sino a quello, legato a certo abbigliamento, fra gomma, violenza e sensualità). Nessuna trasposizione linguistica è neutra.

Per il linguaggio apocalittico, dobbiamo cercare di effettuare una lettura della situazione, anche solo letteraria, che ha causato la selezione di quel determinato simbolo, che è stato poi combinato in nuovi insiemi simbolici, cosa che è stata resa possibile - ripeto - dal fatto che questi elementi sono entrati nel linguaggio specializzato di certi circoli, in genere minoritari e marginali, che esprimono così un loro modo di vedere la situazione. Però capite che l'utilizzo di questo materiale tradizionale, in buona parte metaforico o simbolico, presuppone da parte di chi lo usa e di chi ascolta che esistano delle costanti nella storia: io posso dire di Roma che è Babilonia perché chi mi ascolta sa che esiste un modo di costruire la città umana secondo la logica identificata in Babilonia. Se poi personifico Babilonia e ne faccio la ricca prostituta, negando con ciò stesso che questa sia una caratteristica di Gerusalemme (immagine che mi preparo ad usare per la Città ideale), carico ulteriormente la mia immagine di giudizi di valore.

Un accenno ancora sulle strutture simboliche discontinue, che talvolta rasentano l'assurdo. Nascono naturalmente dall'accostamento di simboli, ma molto spesso denunciano anche una coscienza da parte dell'autore apocalittico. Egli sa che, perché le sue speranze si realizzino, devono rompersi certe apparenti ineluttabilità della storia. Il linguaggio apocalittico, non solo di Apocalisse di Giovanni, vive di una tensione doppia, quasi di una contraddizione: da un lato, deve credere in una storia ritmata da elementi costanti; dall'altro deve credere - da qui il valore distruttivo della parola apocalittico - che prima o poi questa logica apparentemente ineluttabile sarà spezzata. Per cui, niente di strano se le ruote di un carro sono rivolte verso quattro direzioni diverse, perché quello che lui sogna è un mondo in cui non si sia legati alla unidirezionalità di un carro.

Vi ho già accennato ad una cifra importante del linguaggio apocalittico, non tanto come lessico, ma come modo di esprimere determinate credenze: la periodizzazione della storia. L'apocalittico vive una tensione tra la ripetitività banale e stancante degli avvenimenti umani, in particolare in quanto hanno per lui di negativo, e la sua voglia che questo mondo sia spaccato, perché si aprano cieli e terra nuova. L'idea però che le cose siano ripetibili - o meglio, che la storia sia periodizzabile - gli permette uno dei suoi giochi letterari più comuni. Se voi scorrete una lista delle apocalissi dal I sec. a.C. fino al II sec. d.C., sono tutte attribuite a grandi personaggi dell'antichità: Adamo ed Eva, Enoc, Mosè, Elia; poi, in epoca cristiana, Maria, Pietro, Paolo... Personaggi dell'antichità i quali, per una rivelazione strepitosa e solo a loro riservata, hanno potuto salire al cielo, o entrare in contatto col cielo, e vedere come le cose si sarebbero sviluppate. In genere, la storia che l'autore fa vedere al suo eroe del passato è innanzitutto già tutta scritta, non è più possibile cambiare niente; in secondo luogo, è già tutta scritta per periodi fissi: di cinquant'anni in cinquant'anni, di sette anni in sette anni. Se attribuisce a Mosè una visione e divide la storia da Mosè al suo oggi in sei periodi, il settimo periodo riguarderà il futuro. Con questo gioco della periodizzazione descrive in buona parte fatti che tutti già conoscono e, mettendo solo alla fine fatti futuri, può accreditare la sua profezia. Ma a noi, più che questo espediente letterario (che è poi quello cui ricorre anche Dante quando antedata il suo viaggio nell'aldilà, in modo da descrivere come previste dai dannati o dai beati certe cose che lui sa benissimo che sono già avvenute, come lo sanno i suoi lettori - è una finzione letteraria -) quello che importa è che alla base questa mentalità c'è l'idea che effettivamente la storia sia in qualche misura divisa in periodi.

Il linguaggio apocalittico, quindi, servirà ad affermare: "io sono in continuità con i profeti, perché uso il loro stesso linguaggio, ma posso darvi anche il termine in cui si realizzeranno le loro profezie". Questo dopo che molte delle aspettative create dalle promesse dei profeti sono andate deluse.

È necessario a questo punto parlare di un'altra caratteristica del linguaggio apocalittico.

Ammettiamo un livello 0 del linguaggio, quello in cui ad ogni parola corrisponde una cosa: casa vuol dire casa; cosa fatta di mattoni, con quattro pareti, un tetto, delle stanze, una porta e delle finestre. Linguaggio normale.

Il profeta, quando vuole descrivere cose che in fondo appartengono ancora al livello del linguaggio normale, anche se possono sembrare non attualissime, quando vuole, per esempio, descrivere una migliore situazione politica, o il suo sogno che Gerusalemme diventi un centro di commerci, o, nel negativo, una punizione, una sciagura, una tragedia, non le chiama direttamente con il loro nome, ma per il gioco che gli è tipico, cerca di elevare a un grado che posso chiamare 1, o -1, il suo linguaggio. Se vuole dire che le cose cambieranno in meglio, dice che il lupo pascolerà con l'agnello: metafora migliorativa, come ce ne sono di peggiorative.

L'apocalittico, che replica questo linguaggio, ma che non condivide più queste speranze, prende sul serio questo linguaggio e lo usa per descrivere una realtà che per lui o è veramente finale, risolutiva del dramma umano, o a tal punto peggiore da non ammettere remissione. Ad esempio, consideriamo il castigo degli empi: quando un vero profeta, un Isaia o un Geremia, diceva "gli empi saranno tutti uccisi e i loro corpi saranno mangiati dai corvi", intendeva semplicemente una situazione in cui l'empietà non fosse così potentemente presente come nel suo tempo. Invece, per l'apocalittico, quello è solo il livello minimo: che gli empi siano sterminati e mangiati dai corvi è il livello banale, per lui questo è l'annuncio di qualche cosa di molto al di là, una punizione cosmica, che coinvolge angeli e potenze demoniache. Così è nel caso delle metafore migliorative.

Da qui scaturisce anche il famoso linguaggio distruttivo. Vi ho detto: da un lato l'apocalittico ha bisogno di credere che la storia sia scritta tutta, che non ci sia più niente da aggiungere. Nel libro dell'Apocalisse di Giovanni avete l'Agnello che dalle mani del vegliardo seduto sul trono riceve un libro, un rotolo, scritto dentro e fuori, scritto oramai completamente: non ci si può più aggiungere una virgola, tutto è deciso. Deciso, magari, con la scansione in determinati tempi, o in determinati ritmi. Ma dall'altro, proprio questa possibilità di essere contato del tempo, di essere numericamente connotato, è un modo per dire che comunque quel tempo oramai tutto scritto, tutto pieno, tutto determinato dalla volontà di Dio, in realtà è finito, non è eterno. Non c'è nulla di ineluttabile, malgrado che lo si veda ineluttabile.

L'apocalittica, vi ho detto, fiorisce soprattutto tra il I sec. a.C. e il II sec. d.C. Che cosa è caratteristico di quel momento storico - e un pò anche del nostro? Il predominio, apparentemente ineluttabile, di una sola cultura; nella fattispecie la cultura romana. E la sensazione, da gran parte condivisa che, dopo periodi di una certa fluidità, questa situazione sia oramai di per sé incrollabile, immodificabile. Non si riescono, cioè, a vedere, nell'immediato, delle prospettive di cambiamento: si sa genericamente che nulla è eterno in questo basso mondo, però non si riescono a vedere vere possibilità di cambiamento. Ne deriva che il mutamento può venire solo dall'esterno, che il linguaggio dei profeti debba essere gonfiato sino a prevedere un mutamento radicale della realtà, ma è perché la realtà è radicalmente univoca che l'apocalittico deve reagire in quel modo. Non c'è più possibilità di alternative: è finito in un corner, in un angolino.

In altri termini, il messaggio in fondo consolatorio delle apocalissi, tipico, se volete, di comunità che sentono prossima la persecuzione, è che, malgrado le apparenze, nulla è ineluttabile.

Possiamo definirla una filosofia della storia? Tutto nasce sostanzialmente da due elementi: la delusione rispetto alle speranze profetiche, la certezza di una cultura dominante idolatra. L'apparente immutabilità della situazione, e, nello stesso tempo, la convinzione che, malgrado il ricorrersi di periodi identici e già predeterminati nella mente di Dio - proprio per l'esserci di periodi identici e già determinati -, prima o poi il mondo della determinatezza sparirà.

Capiamo perché l'apocalittico ha bisogno della distruzione. Cosa c'è di più solido, di più ineluttabile, di più sacro, che il moto delle stelle? Ebbene: io vi dico che un bel giorno le stelle crolleranno. L'ineluttabilità non è tale di fronte alla decisione immancabile di Dio.

Da un punto di vista storico è interessante notare come questa forma di mentalità, che in sé potrebbe essere a buon diritto ritenuta deterministica, sia stata la molla di rivolte politiche e di azioni estremamente rischiose. All'epoca di Gesù era l'ideologia di certe ali estreme del fariseismo, dello zelotismo, e può avere un parallelo, nei tempi più vicini a noi, con certe forme di marxismo, in cui, da un lato, si proclamava che, per la logica dialettica della storia, tutto era inevitabilmente destinato a un certo sviluppo, dall'altro si invitava alla rivoluzione.

Il movente psicologico è la di consolazione di chi si vede costretto all'opposizione, anche violenta talvolta, rispetto ad una cultura dominante e apparentemente unica, e si chiede quale sia l'utilità reale della sua azione.

Apocalisse di Giovanni rispetto a questa struttura linguistica, o logica, mostra una caratteristica: le serie numeriche (vi ricordo: serie numerica significa totalità di giudizio su una situazione data da Dio, ma, proprio perché numerica, finitezza della situazione stessa), a parte il primo settenario delle lettere alle sette Chiese, sono costruite in modo che il gioco della periodizzazione non sia più proiettato verso la fine ma verso l'intimo del dramma storico. L'ultimo elemento comprende un'altra serie, in modo da andare sempre più a fondo nella lettura della realtà storica. Non per caso, al cuore di questa raffigurazione della realtà storica del suo tempo, l'autore di apocalisse oppone le due città: la città mondana, Babilonia, e la città celeste, la fidanzata che scende dal cielo, una realtà nuova messa in essere dalla parola di Cristo.

Un ultimissimo accenno per ritornare alla nostra attualità, dove ogni tanto risbucano, non solo allo scadere dei millenni, elementi apocalittici. Il potere del simbolo, di tutti i simboli, che siano naturali, come si suol dire (il rapporto tra fumo e fuoco) o culturali, è di essere dei formidabili veicoli di valori, al di là del tempo e dello spazio. Nell'Antico Testamento si parla tanto del leone di Giuda: come ha mai fatto - si chiedono gli studiosi - un leone a vivere in quel deserto, quando è notoriamente un animale della savana? Il problema non è come il leone possa vivere in Medio Oriente - ce ne sono di leoni, magari un pò striminziti, poveracci, un pò magri - ma pensate alla dinastia che maggiormente usa il leone come simbolo: la monarchia inglese. Riccardo Cuor-di-leone, lo stemma della famiglia reale, i leoni dei monumenti londinesi. Quando mai un leone è stato in Inghilterra, se non ce l'hanno portato a forza? Bisogna capire che è il simbolo che ha viaggiato, non il leone. Nel caso della simbologia prima profetica, poi apocalittica, essa è ancora in grado di viaggiare e di svolgere un ruolo nella ricerca di costanti storiche. È il gioco dei simboli che mi permette di individuare delle possibili costanti, ammesso che esistano; ma nella mentalità religiosa si può (si deve?) credere che esistano.

Di conseguenza, facendo viaggiare il simbolo (carico di giudizi di valore) nel tempo e nello spazio, in fondo proclamo che esiste una costante; ma nello stesso tempo è necessario dire che queste costanti sono tali nella micro-storia in cui noi viviamo, ma che non saranno tali nella vera storia, che è la storia totale, portata da chi è veramente creatore della storia, la divinità.

Dibattito

Qual è il ruolo possibile dell'analogia nella comprensione della storia? L'Apocalisse formula un dualismo, tra la storia umana e quello che sarà proposto da Dio nella sua rivelazione, che non contempla mediazione, oppure c'è la possibilità di uscire da una ripetizione stantia e, per analogia, dare vita al simbolo, comprendendo l'uomo?

La ringrazio di questa domanda che permette di chiarire alcuni punti importanti. Innanzitutto, sto facendo delle riduzioni: prendetele come tali. La prima è la distinzione tra linguaggio e mentalità profetica e linguaggio e mentalità apocalittica. Il profeta molto spesso, se non quasi sempre, è un uomo del ritorno. Al centro della letteratura profetica c'è il verbo shuv , che vuol dire "tornare": per esempio, dall'esilio; tornare a una vecchia situazione di felicità, che si è perduta; oppure, convertirsi, volgersi indietro e cambiare rotta. Lo stesso verbo è presente anche nel Cantico dei Cantici: è il verbo della danza nel celebre invito shuvi, shuvi, Shulammit: "gira, gira, o Shulammit!", spesso riferito alla conversione del Popolo ed al suo conseguente ritorno dall'esilio. In fondo, il grande sogno profetico è il ritorno a un mitico tempo passato: che sia quello dell'esodo, che sia quello di Adamo ed Eva. Il profeta sogna spesso di portare indietro il corso degli avvenimenti. L'apocalittico non ci crede più; ma, in realtà, non vuole neanche che le cose vadano avanti: se lo vuole è perché spera che arrivino a un punto di insostenibilità. È avviluppato da una cultura unica, per lui intollerabile.

Venendo, invece, al problema dell'analogia, non lo tratterò da teologo o da filosofo. Cercherò di trattarlo tornando alla prospettiva sia storica che linguistica delle apocalissi. L'apocalittico usa il simbolo e pertanto gioca enormemente sull'analogia; una analogia che può essere, da un lato, analogia nell'uso del linguaggio rispetto a quello dei profeti, ma nello stesso tempo credo che da parte sua esista la coscienza di un minimo di analogia entis. Un buon esempio è la sposa, la nuova città che si contrappone alla prostituta, la nuova città che scende dal cielo: non è solo un simbolo che lui ha ereditato, è anche la marca simbolica di un rapporto affettivo diverso fra l'umanità e Dio.

Quindi, al di là della storia, questa nuova città sarà connotata - al di là della storia - da una immediatezza (non ci sarà più altare, non ci sarà più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole) di contatto fra Dio e l'umanità. In questo senso usa un linguaggio analogico. Quindi, non è che creda in una rottura totale; è però evidente che, quando accosta, parlando di certe situazioni, i simboli tradizionali in una maniera volutamente assurda, è anche per dirci: "vi sto dicendo qualcosa che non vi dico che avverrà, ma che vorrei tanto che avvenisse, e di cui non so come parlare". Allora, usa dei simboli oramai lessicalizzati, che fanno parte della cultura del gruppo, e nello stesso tempo li combina in modo da far capire che c'è qualcosa di assurdo. Un mio peccato di gioventù: "La morte e l'Ade in apocalisse". Il vero titolo di quell'articolo avrebbe dovuto essere Il cavallo verde, perché la morte e l'Ade cavalcano un cavallo verde. Nel capitolo sesto appaiono quattro cavalli. Tre sono credibili: uno è rossiccio, l'altro è bianco, l'altro è nero, cavalli normali. Ma un cavallo verde esiste solo nella pubblicità o nelle barzellette. Molti intravedono un qualche problema nella trasmissione del modello veterotestamentario, oppure opinano che verde significa pallido. Tutto questo può essere vero, ma ciò non toglie che l'autore ha scritto verde, e che non era daltonico. È che vuole trasmetterci quanto senta assurda la presenza di morte e Ade nella storia: è uno strumento espressivo. Quindi, anche sballare una analogia - perché in fondo una simbologia a struttura discontinua è uno sballare l'analogia — è affermare qualcosa.

Un altro grosso problema, che è tipico solo di Apocalisse di Giovanni. È, nel Nuovo Testamento, e in genere nella letteratura greca, fra i libri più sgrammaticati: è voluto così, o davvero chi lo scrisse era una persona di scarsa cultura? Perché poi ci sono dei brani, certi inni per esempio, che sono scritti molto bene. Era certamente influenzato dal suo substrato semitico ed è possibile che i brani che invece sono un pochino migliori, siccome in genere sono brani innici e poetici, li abbia presi dalla liturgia delle comunità. Ma è altrettanto possibile che sia una voluta sgrammaticatura, e che abbia una serie di funzioni espressive: innanzitutto, siccome sono sgrammaticature che sanno di semitico (il greco di apocalisse di Giovanni assomiglia un poco a quando noi parliamo in italiano usando delle espressioni del dialetto, per ridere), potrebbe anche averlo usato semplicemente per dare l'idea di qualcosa di arcano, orientale rispetto all'Asia Minore e a Roma. Sappiamo che il mondo vicino-orientale era tradizionalmente associato alla magia. Tanto è vero che oggi, di quei pochi documenti che abbiamo risalenti alla produzione magica dell'epoca, è molto difficile capire quanti escano e quanti non escano da un certo ambiente ebraico, perché ci sono elementi ebraici in molti di essi, ed è arduo valutare se siano presi in prestito, o degli ebrei siano veramente all'origine di quei documenti. Nello stesso tempo, un linguaggio che riproduce un modo di parlare per tagli, per ellissi, ed è quasi estatico, può essere funzionale alla rivelazione di un mistero che il linguaggio comune, corretto, non può esprimere. Quindi, gioco di analogie e di non-analogie.

Vorrei sapere in che modo si inquadra l'Apocalisse di Giovanni nell'ambito del Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento è una raccolta di testi che hanno una forte connotazione storica, cioè si riferiscono ad avvenimenti storici. Come mai, oltre ai quattro vangeli e agli Atti degli Apostoli, a un certo punto nel Nuovo Testamento confluisce un testo che invece è di sapore profetico o apocalittico?

La risposta non è semplicissima, si può procedere per ipotesi.

Prima di tutto, c'è un dato: nel I secolo la letteratura apocalittica è alla moda in certi ambienti marginali. Semmai, ci sarebbe da chiederci perché non ci sono più testi apocalittici nel Nuovo Testamento.

Mentre il giudaismo ufficiale, del Tempio prima e rabbinico poi, ha messo da parte le apocalissi, presso i cristiani ne sono state conservate molte, anche se non tutte inserite nei canoni accettati dalle diverse Chiese. Il mondo ebraico, perché scottato da due rivolte finite in repressioni feroci e quindi spaventato dalla sua stessa letteratura rivoluzionaria (perché l'apocalittica è, a modo suo, una letteratura rivoluzionaria), ed anche un pò per sospetti di eterodossia, non le ha conservate. La formazione del Canone cristiano, della lista ufficiale dei testi del Nuovo Testamento, è stata lenta: all'inizio, probabilmente, si è creato un nucleo di scritti intorno alle lettere di Paolo e ai Vangeli, poi sono stati aggiunti altri libri.

Qualcuno dice che, effettivamente, se apocalisse di Giovanni è entrata nel Canone, è in buona parte dovuto al fatto che fu scritta da un personaggio importante, che fosse l'apostolo o "il presbitero". Quello che è chiaro è che nel Nuovo Testamento abbiamo molti più elementi apocalittici, se vogliamo fare una proporzione, di quanti non se ne trovino nel Vecchio. Gesù si propone come apocalittico: abbiamo delle apocalissi di Gesù nei vangeli (il capitolo 13 di Marco è un'apocalisse: quei brani che tutti noi conosciamo sulla distruzione di Gerusalemme, o comunque sul "non resterà pietra su pietra"). Nulla di strano, dopo quanto è stato scoperto a Qumran, nel pensare che anche Gesù fosse apocalittico. Tenete presente che i suoi discepoli vennero chiamati ad Antiochia, ad un certo punto, "cristiani". Non perché discepoli di Gesù Cristo. Cristo voleva dire Messia, e cristiani voleva dire messianici; quindi, vengono identificati con un movimento messianico, avente al cuore della sua ideologia non solo la persona di Gesù, se no, avrebbero continuato a chiamarli nazorei o nazareni, ma la sua qualità messianica. Il termine messianici fa intendere che questi, o forse quel gruppo di cristiani rispetto ad altri gruppi di cristiani, credevano nella già avvenuta manifestazione del Messia. Riconducibile all'ambito apocalittico, abbiamo la lettera di Giuda; San Paolo è apocalittico in certi brani, soprattutto quando è ancora vicino alla sua matrice ebraica; poi si spegne la sua verve apocalittica, mano a mano che si avvicina ad una mentalità di tipo ellenistico.

Esistono altre apocalissi cristiane dei primi secoli, o anche riscritture cristiane di testi apocalittici, come i Testamenti dei dodici patriarchi. Qualche storico arriva a dire che, quando, nel 64, Nerone perseguitò i cristiani dando loro la colpa dell'incendio che forse aveva provocato lui, o che comunque non si era buttato a spegnere, uno dei motivi fosse che questi erano felici perché il crollo di Roma, del centro del mondo, era un segnale della fine e del ritorno del Messia.

Mi rendo conto di avervi trasportato in un mondo che sa di vecchio e nuovo nello stesso tempo: vecchio perché odora di sagrestia, e nuovo perché, magari, una riflessione sul linguaggio può essere un pochino meno comune. Tuttavia, la perpetuità dei simboli apocalittici è ancora estremamente vivace; a me è capitato di leggere dei librini in cui il famoso drago rosso di apocalisse 12 era visto come il simbolo profetico di una certa nazione, crollata la quale si sarebbe arrivati alla felicità totale: adesso quella nazione è crollata - non so se sono tutti così felici. Quello stesso drago rosso è stato di volta in volta Lutero; per i luterani è stata la Chiesa di Roma: è un simbolo trasportabile, come il leone di cui parlavamo prima, e ha la sua potenza lo stesso.

Come mai, secondo lei, gran parte del linguaggio apocalittico adesso è nelle mani dei tecnocrati? Quelli che prevedono il futuro non sono più i religiosi, ma chi ormai si occupa di formule e di analisi altamente tecnologiche.

Credo che questo sia tipico della nostra epoca; siamo passati nell'ultimo secolo - quello finito l'anno scorso - attraverso varie fasi di riproposizione di proiezioni sia di tipo profetico che di tipo apocalittico. Si può citare, innanzitutto, l'ideale del progresso, una sorta, se volete, di apocalisse ribaltata: tutto andrà meglio, per forza di cose, con l'accumularsi delle conoscenze. Ancora quando ero bambino si era sicuri che tutto quello che si faceva nel campo dell'alimentazione avrebbe portato senz'altro ad avere dei bambini più robusti, della gente più sana. Che, poi, è stato vero per le generazioni che hanno goduto di questo periodo; che, nate in una civiltà ancora agricola, sono state proiettate in un mondo in cui avevano a disposizione tante medicine. Abbiamo già fatto allusione al materialismo dialettico, che, attraverso una serie di rapporti di forze, doveva portare al socialismo. Non è un caso, dicono alcuni studiosi, che all'origine di questo pensiero ci fosse una sorta di messianismo giudeo-cristiano fattosi immanente: speranze trasposte nella realtà materiale invece che a livello spirituale.

Altre forme di "messianismo" di tipo tecnocratico o scientifico si stanno riproponendo. Fare delle previsioni, sono convinto che sia fortemente possibile; controllare gli effetti di quello che si prevede, sarà il vero problema: un apparente progresso ineluttabile verso il meglio è scientificamente prevedibile fino alla parola meglio, che non è un termine scientifico: è una valutazione. Nessuno può dirci che la tecnologia informatica porterà al meglio: andrà verso la miniaturizzazione sempre più perfetta, questo sì. Qual è lo stacco fra teologia e tecnologia, per cui è giusto che il teologo faccia il teologo - non condanni la scienza - e lo scienziato faccia lo scienziato e non il teologo? È quella parolina: meglio (o peggio). Non solo il teologo cristiano: chi ha a che fare con lo spessore dell'umano ad un livello diverso da quello meramente scientifico. L'interferenza tra i due campi crea molto spesso dei blocchi ideologici al prevedibile cammino scientifico o, come tutti sappiamo, può assolvere ad un ruolo critico al riguardo della ricerca, quando questa procede non dico prescindendo da certi valori, ma quasi opponendosi a tali valori. Questo è indebito, perché è una scelta di valore.

Leggere l'Apocalisse oggi all'interno della teologia generale, dell'impostazione del Nuovo Testamento, di noi che cerchiamo di vivere meglio, di andare d'accordo, di volerci più bene, che funzione ha?

Una cosa l'ho già detta: senza volere demonizzare nulla (malgrado che la simbologia apocalittica porti a demonizzare, fa parte del suo gioco letterario), credo che ancora oggi sia importante assumersi il confronto con un mondo ad un'unica cultura (dominante: non che sia l'unica cultura presente, è l'unica dominante). È possibile una critica di quella cultura, soprattutto nella sua tracotante convinzione d'essere ineluttabile e infinita. Idea che molto spesso inficia la correttezza di tanto agire e di tanto pensare.

Questo credo che sia un messaggio per il credente e anche per il non credente; vi posso consigliare una lettura: un librino dedicato ad Apocalisse nel testo latino, scritto nel ‘91, in piena guerra del Golfo, da Asor Rosa: non è parola di Dio, nè lettura scientifica, è un'opinione. Appunto, legge Apocalisse sullo sfondo del conflitto fra una cultura dominante e una cultura alternativa, minoritaria. È interessante: egli non è un credente, però, fra i vari testi che poteva commentare, non ha commentato Cervantes, ma Apocalisse di Giovanni. È un libricino agile, simpatico, che va ambientato in quel momento, nelle reazioni che una persona come Alberto Asor Rosa poteva avere in una situazione del genere.

Per il credente v'è la certezza che la storia viaggia su due piani, anche dentro di noi: la nostra creatività, la nostra libertà, sotto l'azione potente di Dio, può rompere certe apparenti ineluttabilità, dentro di noi e fuori di noi. Almeno portarci a non considerarle tali: farci credere che le stelle crollano. Soprattutto quando esistono dei blocchi che non ci permettono di camminare. In altri termini, quella scelta: "e tu da che parte stai?" è come dire: "la tua libertà è più forte delle contingenze", pur se sei bastonato, pur se sei, come direbbe il capitolo sette di Apocalisse, fra quei martiri sotto l'altare che gridano: "fino a quando?"

Apocalisse vuol portarci al fondo del dramma storico. In tal senso, per un credente, è testo normativo come pure le apocalissi di Gesù, anche relativamente a certe belle pietre, a certi bei templi, che costruiamo noi.

Lei ha detto che per noi credenti il testo dell'apocalisse potrebbe essere un testo normativo: può ampliare questo concetto?

Quando le Chiese hanno messo alla base della loro fede il cosiddetto "Canone", cioè la lista delle scritture (kànon in greco vuole dire canna con cui si misura), intendevano indicare la mensura fidei, la misura della fede; elementi per confrontare la tua fede. È una circolarità: la nostra fede ci fa accettare quei testi, ma, se non ci fossero quei testi, non ci sarebbe la nostra fede.

Quando però dico normativo, intendo anche affermare che fa parte di quella letteratura basilare e normativa, nel senso del kànon, che è l'insieme del Nuovo Testamento, il quale non ha una teologia, ha delle teologie, le quali a loro volta hanno prodotto delle meditazioni nella lunga, oramai bimillenaria, storia della Chiesa. Quindi, non è che il cristiano in quanto tale sia tenuto a diventare un apocalittico, ad andare in una caverna nel deserto di Giuda e maledire tutto il mondo, perché perverso alla sua radice; ci sono visioni, se vogliamo, un poco più ottimistiche già all'interno del Nuovo Testamento, nelle parole dello stesso Gesù. Però fa parte del nostro "depositum fidei", della radice della nostra fede, ed è una prospettiva, secondo me, da non disprezzare. Anche se passa dei momenti in cui è arci di moda e dei momenti in cui non interessa niente a nessuno, di fatto, fa parte quasi del nostro patrimonio genetico, in quanto cristiani. E in questo senso è normativa.

Approfitto di questa domanda per aggiungere una cosa: l'Apocalisse è interessante tra l'altro perché è un libro dialogico, fatto per essere recitato in una sorta di performace che coinvolge lo spettatore. Il suo gioco simbolico si percepisce con la velocità del parlato: è molto simile a certi film apocalittici, in questo senso, dove l'immagine passa veloce, e dà solo una sensazione, più che permettere di fermarsi a ragionare. Forse, certe sbavature nell'interpretazione di apocalisse, certe sperimentazioni più o meno eretiche, nascono dal fatto che non si è tenuto conto di questa velocità di lettura: e allora si assolutizza questo a quel simbolo. Il celebre numero della bestia, 666, ha subito varie interpretazioni a tavolino: l'ultima pretende che www, che in ebraico si scriverebbe con tre waw, poiché il valore numerico di waw è 6, indica che Internet è demoniaco. È demoniaca la bolletta del telefono, se ci stai troppo! Per restare in tema, siccome si può leggere in maniera più o meno non so se nevrotica o psicotica - non me ne intendo di questa terminologia - anche l'elenco del telefono, non è Apocalisse alla radice di certe deviazioni del pensiero. Può essere una esca più appetibile, questo sì.