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Seconda Serata
Cagliari 6 aprile 2001

Mi rendo conto che, da un lato, sia faticoso leggere i vangeli in questo modo, che sia magari emotivamente poco affascinante: molto meglio, talvolta, fare dei discorsi più coinvolgenti; ma non siamo fatti solo di emozioni e renderci conto che esistono quattro vangeli che spesso fra loro non concordano può essere un modo di capire quanto Dio abbia fatto affidamento anche alla nostra intelligenza, permettendoci questi confronti.
Ci interesseremo questa sera di due momenti apparentemente marginali, ma che non lo sono affatto per capire che cosa successe in quei giorni.
Il momento dell'arresto di Gesù e il momento della comparizione di Gesù davanti al sommo sacerdote.

 

L'arresto di Gesù al Getzemani.

Vorrei notare subito che in Matteo, Marco e Luca ci sono due frasette che danno l'impressione che il racconto incominci per la prima volta.

Matteo 26,47: "Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei dodici": ieri sera abbiamo letto questa frase "Giuda uno dei dodici" già nella scena del cosiddetto tradimento.

Il lettore dovrebbe già sapere chi è Giuda, e che è uno dei dodici. Addirittura, il racconto di Luca ci dice "Li precedeva colui che si chiamava Giuda": conosciamo benissimo il suo nome, tanto più che i vangeli, quando ancora all'inizio del ministero di Gesù in Galilea parlano della scelta dei discepoli, danno la lista e mettono per ultimo Giuda "quello che poi lo tradì". Questo è già un segnale.

Sembra che al capitolo 26, quindi dopo 25 capitoli e mezzo, Matteo senta il bisogno di dirci chi era questo Giuda, e così fanno Marco e Luca.

Il secondo inizio un pò faticoso lo leggete al versetto 55 di Matteo, al versetto 48 di Marco e, in un certo senso, anche nel versetto 52 di Luca.

Si ha l'impressione che si tratti di un altro racconto perché "In quello stesso momento Gesù disse alla folla", c'era bisogno di dirlo che era in quello stesso momento? Sarebbe come se a metà di un capitolo in un libro ritrovaste una frase che dice che state leggendo

il tal capitolo. Stesso fenomeno nel racconto di Marco: "Allora Gesù disse loro".

Ancora più forte il racconto di Luca 22,52: "Poi Gesù disse a coloro che gli eran venuti contro, grandi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani". Sapevamo già di tutta questa gente.

Sono convinto che il racconto che occupa la prima parte di queste narrazioni, vale a dire il racconto dell'arrivo di Giuda, abbia avuto una storia indipendente e che sia giunto agli evangelisti che lo hanno inserito, e pertanto hanno dovuto riprendere il discorso con quella frase: "In quello stesso momento Gesù disse alla folla", "Allora Gesù disse loro".

In tutti e tre i casi quella frase che Gesù dice dopo questa seconda partenza un pò faticosa, dal punto di vista del tessuto narrativo, è un lamento sul fatto che sono venuti a prenderlo come un brigante con spade e bastoni, mentre ogni giorno stava ad insegnare nel tempio e non lo hanno arrestato.

Probabilmente, i due racconti hanno una storia differente. Il secondo racconto, il lamento di Gesù, è forse una meditazione successiva, aggiunta dalla esperienza della Chiesa che sa che Gesù è stato preso con spade e bastoni come se fosse un malfattore.

A noi oggi questo non dice molto, ma sotto c'è una meditazione della Chiesa, infatti il versetto 56 di Matteo dice: " Ma tutto è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti".

Versetto 49 di Marco alla fine: "Si adempiano dunque le Scritture!", invece Luca non ha questo tratto sulle scritture ma ha: "Questa è la vostra ora è l'impero delle tenebre".

È un meditazione a posteriori, basata sulle Scritture.

È l'idea che sia stato annoverato fra i malfattori, ma siccome di questo testo "fu annoverato tra i malfattori" dovremmo parlare domani sera a proposito della sepoltura, per il momento lo lasciamo da parte. È chiaro, però, che il lamento fa pensare ad una sorta di arresto operato d'ufficio dall'autorità contro un uomo violento (un brigante, un rivoltoso?).

Ci rimane dunque l'inizio del racconto: arriva Giuda che, secondo Marco e Matteo, aveva dato precedentemente agli armigeri un'indicazione.

"Chi l'avrebbe consegnato, dice il versetto 48 di Matteo, aveva dato loro questo segnale dicendo: Quello che bacerò è lui: arrestatelo!. E subito si avvicinò a Gesù e disse: Salve Rabbì! e lo baciò. E Gesù gli disse: Amico, per questo sei qui! ".

Il racconto di Marco è più o meno dello stesso tenore: "Chi lo consegnava aveva dato loro questo segno: quello che bacerò è lui: arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta. Allora gli si accostò dicendo: Rabbì, e lo baciò".

Tuttavia, non leggiamo la risposta di Gesù.

Luca è un poco diverso, dice: "Li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: Giuda, con un bacio consegni il Figlio dell'uomo? ".

Se avessimo solo il racconto di Luca non sapremmo che quel bacio era un segnale: è piuttosto il gesto normale del discepolo nei confronti del Maestro e la reazione di Gesù è far notare il contrasto fra quel gesto abituale e il gesto che in realtà Giuda sta compiendo consegnandolo alle autorità.

Qualcosa di analogo a quando qualcuno, di cui sappiamo benissimo che ci vuole del male, ci dà la mano per salvare la faccia in pubblico; magari a denti stretti possiamo dirgli: "proprio tu vieni a darmi la mano?". In tal senso, non è un segnale.
Luca aggiunge che li precedeva, li guidava in quel luogo.
Luca si pone quindi, lo dicevamo già ieri sera, sulla linea di Giovanni: il ruolo di Giuda non è far riconoscere Gesù, ma indicare il luogo in cui si trova, precedere gli armati, far loro strada.

Molto più esplicito su questa linea è il vangelo di Giovanni (18,1-2): "Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là dal torrente Cedron, dove c'era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, che lo consegnava, conosceva quel posto, perché Gesù vi si ritirava spesso là con i suoi discepoli. Giuda dunque, preso un distaccamento di soldati e delle guardie fornite dai grandi sacerdoti e dai farisei, si recò là con lanterne, torce e armi".
Il racconto di Giovanni aggiunge un altro particolare per noi un pò inquietante.
Giuda che non solo fa da battistrada, ma sembra prendere l'iniziativa di raccogliere gli armigeri.

In altri termini, mentre per Matteo e Marco il ruolo di Giuda è far riconoscere Gesù, per Luca consiste nel precedere il gruppo degli armigeri, per Giovanni, è addirittura di organizzare l'arresto.
Segue in tutti gli evangelisti il racconto del ferimento di un servo del sommo sacerdote da parte di qualcuno dei presenti.

Il racconto di Matteo, al versetto 51:

"Ed ecco, uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada, la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote staccandogli un orecchio. Allora Gesù gli disse: Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada ".

Il racconto di Marco è molto secco: "Uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l'orecchio".

Luca: "Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: Signore, dobbiamo colpire con la spada?. E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l'orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: Lasciate, basta così!. E toccandogli l'orecchio, lo guarì".

Si nota, nel testo di Luca, che sono due racconti fra loro paralleli, uno è il resoconto del ferimento e della conseguente guarigione, Luca è l'unico che la riporta, e l'altro è invece la ripresa di un testo che noi leggiamo già in Lc 22,35-38.

"Poi disse: Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali vi è forse mancato qualcosa?. Risposero: Nulla. Ed egli soggiunse: Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha una spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico: Deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine. Ed essi dissero: Signore ecco qui due spade!. Ma Egli rispose: Basta!".

Anche durante la scena dell'arresto Gesù risponde "basta", è lo stesso tratto narrativo ripreso, ma è fuso con il racconto dell'orecchio e terminato con quella guarigione di cui altrimenti non sappiamo nulla.

Il vangelo di Giovanni, dopo un lungo inserto di cui parleremo più avanti, nei versetti 10 e 11, racconta lo stesso fatto ma, come è tipico di Giovanni che non ama gli anonimi, chi estrae la spada è Simon Pietro. E il servo ha un nome: Malco.

"Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: Rimetti la tua spada nel fodero: non devo forse bere il calice che il Padre mio mi ha dato? ".

Qui non si parla direttamente di Scrittura, ma Giovanni recupera in questo contesto una frase che gli altri evangelisti pongono nel racconto dell'agonia, che Giovanni non narra.

Ora, gli altri, narrando dell'agonia al Getzemani, riportano due frasi: in una Gesù accetta la coppa o prega che la coppa sia allontanata da lui, nell'altro si rende conto che è giunta la sua ora.

Questa frase dell'ora che troviamo in Luca, l'ora delle tenebre, probabilmente è una rilettura del documento B in chiave filo-ellenistica, cioè adatta a orecchie greco-romane, di quella immagine della coppa, che invece è una immagine biblica più adatta ad un ambiente ebraico. Anche Socrate, nella sua Apologia, dice che per lui è giunta l'ora di andarsene.

Giovanni pone in questo contesto la frase della coppa e in altre dichiarazioni pubbliche di Gesù la frase dell'ora (Gv 12,23, il momento in cui gli Ellenisti vanno da Filippo e gli chiedono di conoscere Gesù): non ci narra della preghiera solitaria di Gesù nel Getzemani. Entrambe le frasi sono dette in pubblico.

Forse ha ragione Giovanni, frasi che Gesù ha detto in pubblico e che gli altri hanno in qualche modo inserito in quella preghiera segreta, silenziosa, drammatica, di cui non sappiamo nulla: la preghiera di Gesù mentre attendeva che venissero a prenderlo.

Vi è un tratto comune a tutti i vangeli che è per me il più importante, non da un punto di vista spirituale o esegetico, ma per ricostruire gli avvenimenti ed è l'espressione che troviamo nel versetto 50 di Matteo: "Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono".

Simile il versetto 46 di Marco: "Gli misero addosso le mani e lo arrestarono".

In Luca leggiamo l'espressione nel versetto 53: "Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me".

Questa espressione viene elisa dal racconto di Giovanni, ma dobbiamo tenere presente che è un termine tecnico di sapore squisitamente giuridico romano: mettere le mani su qualcuno. Non a caso, Luca (che dipende dal documento B) la riporta senza il doppione "lo arrestarono".

Noi siamo abituati ad una certa procedura, quando riteniamo di aver subito un torto: andiamo dalla polizia e denunciamo chi ci ha danneggiato. Da quel momento, la Polizia è tenuta ad intervenire e a chiarire le cose.
Nell'antichità così non era: vigeva molto di più, se volete, l'azione privata.
Se ritenevo di essere stato offeso o di aver ricevuto un danno da qualcuno, stava a me portarlo in tribunale, solo in casi estremi potevo chiedere l'aiuto da parte di qualcuno mandato ufficialmente dall'autorità.
In altri termini, il cittadino prendeva su di sé, di solito con amici e parenti, la responsabilità di "mettere le mani addosso a qualcuno", arrestarlo e portarlo in tribunale.
Se poi si dimostrava il torto dell'accusatore, stava a questi risarcire l'accusato di quel gesto violento.
Questa era la procedura abituale, per le cause che non avessero riguardato direttamente l'imperium, cioè lo stato.
I soldati, gli armigeri, o la "folla con spade e bastoni", si comportano come dei privati o come gli emissari di qualcuno che ha un ruolo privato: mettono le mani addosso a Gesù, si prendono la responsabilità di catturarlo e poi starà a loro provare che avevano ragione a farlo.
Consideriamo ora le caratteristiche proprie ai resoconti di Giovanni e di Marco, iniziando da due tratti tipici di Giovanni.

"Gesù conoscendo tutto quello che gli doveva accadere si fece innanzi a loro e disse: Chi cercate?. Gli risposero : Gesù, il Nazareno. Gesù disse loro: Sono io!. Vi era là con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse : Sono io , indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: Chi cercate?. Risposero: Gesù, il Nazareno. Gesù replicò: Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano. Perché si adempisse la parola che egli aveva detto: Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato ". (Gv.18,4-10)

Anche in questo racconto notiamo un riferimento alla Scrittura, ma la cosa più importante, lo sappiamo tutti, di questo inserto tipico di Giovanni, è quella famosa risposta "sono io", che riecheggia l'auto-presentazione di Dio nel roveto ardente, quando Mosè gli chiede: "dimmi qual è il tuo nome perché io possa andare dagli Israeliti e dire che tu mi hai mandato per condurli fuori dall'Egitto", Dio risponde: "tu dirai: Io Sono mi ha mandato".

Con Giovanni siamo a una cristologia molto evoluta, non è certo quella di Marco, che semmai tende a nascondere la divinità di Cristo: nel caso di Giovanni questa è la caratteristica più tipica di Gesù, e più si avvicina alla morte, più è Dio. Nel vangelo di Giovanni, sarà al momento della morte che Gesù crea il nuovo mondo. Anche in tal caso, con un gioco di parole "chinato il capo, emise lo spirito", lo spirito suo è lo Spirito di vita. La pentecoste di Giovanni avviene sulla croce; è in quel momento che lo spirito di Dio entra in noi. Volutamente,

Giovanni gioca sull'ambiguità: più Gesù è abbassato nella sua realtà umana, più fa risplendere questa sua potenza creatrice, "lo spirito di Dio si librava sulle acque".

Tratto caratteristico di Marco è il bozzetto dei versetti 51 e 52: "un giovinetto però lo seguiva rivestito soltanto di un lenzuolo e lo fermarono, ma egli lasciato il lenzuolo fuggì via nudo". Ci si è chiesti chi fosse questo giovinetto: qualcuno ha detto che sarebbe Marco stesso, qualcun altro che il dettaglio apparentemente gratuito dimostra che Marco è un testimone oculare. Al mattino della resurrezione, quando le donne vanno al sepolcro per ungere il corpo di Gesù, per gli altri evangelisti ci sono due angeli, un angelo, due uomini (testimoni degni di fede); per Marco c'è un giovanetto vestito di bianco "seduto alla destra". Tutti gli esegeti oramai si allineano sull'interpretazione che vuole questo giovanetto, che fugge nel momento in cui viene catturato Gesù, sia un simbolo di Gesù stesso: egli fugge nudo, lasciando quel lenzuolo, quel sudario, quel simbolo di morte (la sua vita mortale), in mano ai suoi persecutori, per poi riapparire alla fine del vangelo, seduto alla destra (senza dire di chi, ma sappiamo che è la "destra di Dio"), come una nuova vita, un giovanetto rivestito di bianco, il colore della resurrezione. Gesù abbandonava nelle mani dei suoi persecutori la morte per trovare in Dio la vita e attraversa nudo, spoglio di tutto, il dramma della sua crocifissione. Il simbolo si inquadra molto bene nella probabile recita della passione secondo Marco (oggi si pensa ad un contesto battesimale) e nella notte di Pasqua, o in una sorta di celebrazione pasquale della Chiesa antica: per dire ai nuovi battezzati: "col battesimo voi affidate il vostro corpo mortale alla morte per ricevere una nuova vita in Cristo". Cristo è il primo che compie questo itinerario.

Chiusa questa prima parte possiamo fare un piccolo riassunto.

Il documento C, che soggiace a Luca e Giovanni, indica che il ruolo di Giuda fu quello di indicare il luogo, non quello di far riconoscere Gesù e, se vogliamo credere fino in fondo a Giovanni, di organizzare un drappello di armigeri. Giovanni, poi, esagera (ma lo fa spesso) nel parlare di una coorte, un distaccamento dell'esercito romano: 300 uomini.

Tutti i documenti ci dicono che fu un arresto sul tipo di quello che si produceva quando qualcuno osava mettere le mani su un altro, per portarlo in tribunale. O almeno, un documento pensato per orecchie avvezze ai costumi romani così interpreta gli avvenimenti. Giustamente, crediamo.

Forti di queste informazioni, possiamo affrontare il cosiddetto "processo davanti al sinedrio".

Ci interessiamo, anzitutto, al racconto di Matteo, da un punto di vista cronologico. Il versetto 57 del capitolo 26 di Matteo fa seguire immediatamente all'arresto una prima comparsa di Gesù di fronte al sommo sacerdote Caifa: "Ora quelli che avevano arrestato Gesù lo condussero dal sommo sacerdote presso il quale si erano già riuniti gli scribi e gli anziani"; siamo, quindi, nella notte. Nel capitolo 27 all'inizio, presenta uno strano consiglio dei sommi sacerdoti e degli anziani del popolo: "venuto il mattino i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù per farlo morire. Poi messolo in catene lo condussero e consegnarono al governatore Pilato".

Per Matteo quindi esistono due momenti: un interrogatorio davanti all'autorità, soprattutto al sommo sacerdote Caifa, e poi un consiglio del sinedrio.

Invece in Marco non si parla di un secondo momento: "allora condussero Gesù dal sommo sacerdote e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani e gli scribi".

Luca, che ha come caratteristica di mettere gli oltraggi a Gesù prima della comparsa davanti al sommo sacerdote, è d'accordo con Matteo sul secondo incontro. "Appena fu giorno (nella notte Gesù viene dileggiato semplicemente in caserma dai soldati) si riunì il consiglio degli anziani del popolo con i sommi sacerdoti e gli scribi, lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: Se tu sei il Cristo diccelo".

Giovanni è un poco più complesso: innanzitutto ritiene che Gesù sia stato condotto da Anna, che era suocero di Caifa, e solo al versetto 24 Anna manda Gesù, legato, da Caifa sommo sacerdote. Quindi, Giovanni sembra allinearsi sull'idea di due riunioni, la prima informativa è guidata da Anna, che pur non essendo sommo sacerdote in carica sembra avere una grande autorità.

Il versetto 59 di Matteo ci dice che "i sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù per farlo morire, ma non riuscivano a trovarne alcuno".

"Cercano" false testimonianze, il ché non è il ruolo di un tribunale. Si fanno avanti molti falsi testimoni, finalmente se ne presentano due, secondo la legge dovevano essere due i testimoni concordi, e formulano un'accusa: "costui ha dichiarato di distruggere il tempio".

A testimoniare il falso contro di lui vi sono poi alcuni, che affermano di averlo udito mentre diceva: "io distruggerò questo tempio fatto da mani dell'uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d'uomo".

Luca non riporta questa accusa relativa al tempio: Gesù non è accusato di voler distruggere il tempio e, come è ovvio aspettarsi visto che dipendono dallo stesso documento, neanche Giovanni ci parla della distruzione del tempio. Torniamo a Matteo: "alzatosi il sommo sacerdote gli disse: non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te? Ma Gesù taceva e allora il sommo sacerdote gli disse: ti scongiuro per il Dio vivente perché tu ci dica se sei tu il Cristo, il figlio di Dio".

L'indagine si svolge su due punti, dei testimoni dicono che l'hanno udito affermare che vuole distruggere il tempio e riedificarlo; il sommo sacerdote gli chiede "sei tu il Cristo, il figlio di Dio".

Nel racconto di Marco, al versetto 60, leggiamo: "Ma egli taceva, allora il sommo sacerdote levatosi in mezzo all'assemblea interrogò Gesù dicendo: non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te? Ma egli taceva e non rispondeva nulla, di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: sei tu il Cristo, il figlio del Dio Benedetto? Gesù rispose: io lo sono". Affermazione molto forte di Marco che non abbiamo invece in Matteo: "tu lo hai detto".

In Luca, la citazione del testo di Daniele sul Figlio dell'Uomo che viene sulle nubi del cielo precede la domanda del sommo sacerdote. Al versetto 70 leggiamo: "allora tutti esclamarono: "tu dunque sei il figlio di Dio?" Ed egli disse loro: "lo dite voi stessi, io lo sono". Ancora l'affermazione che abbiamo trovato in Marco, che forse è stato armonizzato.

In Matteo e Marco abbiamo una doppia accusa. Siamo di fronte all'interazione, di cui abbiamo parlato, fra i documenti A e B. Per il documento A, di ambiente ebraico, Gesù è accusato di voler distruggere il tempio, la cosa più terribile che potesse fare a meno di non essere il Messia, perché solo il Messia poteva ricostruirlo. Il tempio di Gerusalemme era sentito come un peso e come una gloria, ma in fondo era stato edificato da Erode. Qualcuno sperava che ci fosse una riforma di quel tempio troppo ellenizzato, ma questo doveva farlo il Messia. Gesù viene accusato di aver affermato, da buon galileo (e i galilei col tempio non avevano un ottimo rapporto), di aver proposto se stesso come Messia, in grado di distruggere il tempio e poi di riedificarlo.

Questa accusa, presso degli ex pagani, non avrebbe voluto dire niente, ed allora il documento B la traduce dicendo: "sei tu il Cristo, il figlio Dio?". Gesù, innanzitutto, cita il testo di Daniele 7, che non capiamo molto bene nella citazione dei vangeli. Lo leggiamo secondo Marco: "e vedrete il figlio dell'uomo seduto alla destra della potenza venire con le nubi del cielo". Tutti pensiamo al ritorno del Signore alla fine dei tempi, ed invece è un'allusione a un testo più lungo sottinteso: "guardando ancora nelle visioni notturne ecco apparire sulle nubi del cielo uno simile a un figlio d'uomo. Giunse fino al vegliardo (Dio) e fu presentato a lui che gli diede potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo serviranno. Il suo potere è un potere che non tramonta mai e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto".

In altri termini, secondo il documento B, Gesù viene accusato della stessa cosa: pretendere di essere il Messia.

"Figlio di Dio" in questo contesto, non vuole dire seconda persona della Trinità, ma vero Messia, vero Re. Luogotenente di Dio nella storia del suo popolo. La comunità rifletterà poi su questo momento così drammatico (come sul momento dell'arresto), ed intenderà "Figlio di Dio" in altri termini, quelli cui siamo abituati noi. È quanto leggiamo in Giovanni, al momento dell'arresto, e in Luca quando riporta la frase: "io (lo) sono".

Abbiamo, quindi, tre stadi: l'accusa che viene rivolta a Gesù è innanzitutto formulata come un'affermazione tracotante ed empia: "io sono il Messia e posso distruggere questo tempio". Gesù aveva cacciato i venditori e i cambiavalute dal tempio, forse è stato quello uno degli incidenti che gli valse una certa impopolarità presso i sacerdoti.

Nel documento B, questa affermazione Messianica viene riproposta, ma nei termini della profezia di Daniele, conosciuta nelle comunità. Successivamente, le comunità meditano su questo e si rendono conto del vero dramma che si cela sotto quell'interrogatorio. Quel che importa per il nostro itinerario è che l'accusa relativa al voler essere Re potrà essere presentata a Pilato come un attentato alla maiestas di Roma, come ben mostra Giovanni.

Ci poniamo tante domande sulla qualità di questo interrogatorio perché è un tema molto discusso, oggi, soprattutto a causa dell'antisemitismo.

Vi fu un vero processo davanti a Caifa o ad Anna in quella notte? No. Come si legge nel processo davanti a Pilato secondo Giovanni, il sinedrio non aveva il potere di mettere a morte qualcuno: se avesse liquidato qualcuno del popolino i romani avrebbero chiuso un occhio, ma per mettere ufficialmente ed in modo esemplare a morte un uomo e per dimostrare la loro contrarietà al tumulto, dovevano cercare testimonianze valide.

Il sinedrio, i sommi sacerdoti, si comportano come dei privati, il ché diminuisce la loro colpa (se volete proprio parlare di colpe) perché non sono loro a condannarlo, ma la aumenta perché sono loro ad accusarlo e consegnarlo (cfr. At 3,13-15). Quello che avviene quella notte è di fatto una sorta di indagine previa per stabilire cosa andare a raccontare a Pilato, è quindi molto probabile che nella notte Gesù sia stato interrogato, non necessariamente dal sommo sacerdote, e che, istruito il processo, cioè trovata l'accusa, si sia poi potuto condurlo al Pretorio per farlo mettere a morte. C'era stato un grosso tumulto, da qualcuno Gesù viene acclamato Messia e i sommi sacerdoti decidono di prendere due piccioni con una fava: calmare i romani e liberarsi di lui. Accusarlo di fronte a Pilato di farsi Dio non avrebbe ottenuto nessun effetto e, come ancora dimostra Giovanni, tramutarono l'accusa in un caso di maiestas.

Così l'autorità romana è più o meno obbligata, dalle contingenze politiche, a condannarlo e a prendersi la responsabilità dell'uccisione di Gesù.

Per i documenti A e C, Giuda guida un arresto che ha più l'aspetto di un atto privato, il sinedrio si comporta come un soggetto privato, anche se agisce per paura dell'autorità romana; quello che avverrà di fronte a Pilato è il contenzioso fra due entità: Gesù e i rappresentanti del suo popolo, in quanto non aventi diritto alla condanna a morte.

Il documento B elabora alcune idee, parla del Messia in termini comprensibili alla gente di estrazione ellenistica, e pian piano si arriva alla coscienza del vero dramma che si sta svolgendo.

Questa non era la coscienza del sinedrio, quindi non parliamo di deicidio: parliamo del rifiuto di uno che, essendo figlio di Davide, viene acclamato Messia nel contesto di un tumulto, che ha potuto catalizzare le forze di quella ribellione e che ad un certo punto viene preso pensando: "colpendo lui, colpendone uno, riusciamo a calmare la situazione".

Per certi aspetti la morte di Gesù ci viene forse banalizzata, ma dobbiamo avere la stessa intelligenza che ebbero i discepoli quando elaborarono i testi che ci sono giunti. Nel rifiuto dettato dall'opportunità e dalla paura, in realtà è Dio che passa e viene rifiutato.

È un gioco degli equivoci, ma la comunità riflette su questi equivoci. "Era la vita che viene nel mondo" dice, con la consueta ironia, il prologo di Giovanni "e il mondo non l'ha accolta/catturata", ma quella vita ha salvato il mondo.

 

Dibattito

Vorrei un chiarimento sul significato del "Dio vivente". Mi sembra che per gli ebrei non si potesse neanche parlare di Dio. Anche nella Bibbia si parla di Dio vivente non di Dio benedetto.

Non è che non si possa nominare Dio, perché se dovessimo con l'elaboratore togliere la parola Dio dalla Bibbia, essa si ridurrebbe ad un librino. Non si poteva nominare il nome di Dio e da qui la provocazione del vangelo di Giovanni con quel "io sono", perché corrisponde al nome di Dio. Sia che Gesù si sia permesso di pronunciare il nome di Dio, sia che parlasse di sè, v'è un gioco evidente operato da Giovanni: è una cosa scandalosa e questo scandalo viene espresso letterariamente col cadere a terra, che evidentemente ha un valore simbolico. L'Antico Testamento permetteva di parlare di Dio usando dei sinonimi: uno di questi è "il Benedetto", altri sono la Presenza, la Parola, il Vivente o la Vita.

Ovviamente dire di Dio che è il Vivente non s'intende un vivente organico come noi, ma la fonte, l'origine della vita, quel Dio che agisce nella storia, in contrapposizione agli idoli che non sono vivi. Mentre l'idolo è morto, è vuoto, è materia, il Dio che non si vede fisicamente perché non ha delle raffigurazioni è vivente.

Il difficile in questi testi è l'interpretazione di quel "figlio di Dio" che alle origini è soprattutto un titolo del Messia; addirittura si dice scherzando che "Figlio dell'Uomo" vuol significare più che "figlio di Dio", perché figli di Dio bene o male lo siamo tutti, non perché Dio ci ha generati, ma perché ha creato l'umanità e tutti siamo amati da lui come figli. "Figlio dell'uomo" è invece termine tecnico per designare il Messia, quasi un nome proprio. Daniele 7 è citato per dichiarare: "voi vedrete che sono io il Messia": è il gioco tra lo svuotamento di Cristo e la presa di possesso del suo regno, ma è ciò che risolve l'equivoco circa il Regno del Messia: è il regno di Dio. Dio non è quell'essere tracotante e sbruffone che ci si immaginava; Dio è un Dio che si annulla in Cristo e così entra nel tessuto della storia come Re della storia. Soprattutto, il vangelo di Marco insiste su questo: è nel silenzio, nel dubbio delle donne che vedono quel sepolcro vuoto e non riescono a capirci molto e se ne vanno via perché hanno paura, che si manifesta la potenza di Dio.

Nel caso specifico tornando al tema del Dio Vivente, è proprio perché è vivo che non ha bisogno di raffigurazioni, delle nostre categorie di potenza. Si manifesta vivo, è vivo nell'amore proprio in Gesù Cristo. Se vogliamo fare una riflessione che non è nei testi.

 

 

Vorrei sapere se c'è differenza tra il concetto di Messia presso gli ebrei nella Bibbia testamentaria e il concetto che noi cristiani cattolici abbiamo di Gesù come Figlio di Dio. C'è differenza o no?

Certo. Innanzitutto, il Messia nella meditazione dell'Antico Testamento ha un'origine particolare: Messia vuol dire unto. La speranza è quella che tutti nutriamo che i governanti che ci troveremo ad avere siano in gamba, buoni, bravi. Speranza normalmente delusa, però così è.

L'ideologia iniziale circa il Messia è che l'Unto, il Re, sia veramente luogotenente di Dio: suo figlio nel senso che assomigli al padre. Poi, con la fine della monarchia, ad opera delle varie correnti letterarie e in particolare con quella apocalittica, la figura del Messia diventa una figura cosmica, assume delle proporzioni che non sono più quelle del piccolo regno di Giuda, in cui si spera che il prossimo Re sia migliore del precedente o non sia peggiore, ché sarebbe già molto. L'idea del Messia assume altri connotati, ma è proprio perché li assume che la gente all'epoca di Gesù discuteva su chi e cosa poteva essere questo Messia. La speranza messianica aveva assunto dimensioni talmente ipertrofiche che, alla fine, non si sapeva bene in cosa sperare.

I cristiani ancora ancorati nelle speranze ebraiche, videro in Gesù il Messia incoronato alla destra di Dio nell'alto dei cieli.

La storia gli ha dato torto, i sacerdoti non l'hanno unto come Messia, lo hanno escluso, ma Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che al di sopra di ogni altro nome. Per i pagani, il fatto che Gesù fosse o non fosse il Messia d'Israele non aveva molto interesse, di conseguenza viene proposto come il Signore universale, poi come Figlio di Dio.

Ma, nella mitologia pagana, di figli di dèi era pieno il mondo: tutte le avventure di Giove e dei suoi colleghi avevano disseminato l'Ellade e zone limitrofe di figli. Il problema fu far capire in che senso Gesù era figlio di Dio. Il nostro concetto cristiano di figlio di Dio non è l'idea di un dio che ha un figlio: è arricchito dal concetto messianico. Figlio di Dio è colui che ha il potere sulla storia. Ma anche dalle meditazioni già presenti in nuce nel Nuovo Testamento e che riconoscono in Cristo la sapienza di Dio, il Logos di Dio. Queste avranno sviluppo in tutta la teologia medievale: Cristo è figlio di Dio come figlio della mente divina. San Tommaso usa questo parallelo, la conceptio mentis diventa la concezione eterna del Figlio. Quest'idea non era assente dal Nuovo Testamento, tutt'altro. Il loro ragionamento fu: se Dio ha dato ragione al Cristo, che la storia umana ha schiacciato, la sapienza di Dio risiede in Cristo. Cristo è la sapienza di Dio, la parola di Dio, è la logica con cui Dio ha costruito l'universo.

Ci sembra che le cose vadano ben diversamente da come Cristo le voleva, siamo noi che siamo fuori logica. Lui aveva ragione, lui era la sapienza divina e questa sapienza è il segreto della creazione. In queste elaborazioni teologiche giocano anche certe meditazioni giudaiche sulla legge come sapienza divina, ma pure di tipo medio platonico sull'universo come compaginato, tenuto insieme, organizzato, quasi come un organismo vivente da una logica, da un'anima del mondo che è l'amore.

I cristiani credono che l'amore compagina l'universo, e quello che fa sì che una pietra stia ferma sopra un'altra, non è il cemento, è Cristo. In che senso? Nel senso che è lui la sapienza con cui tutto è stato messo in piedi. Quindi, io, essere umano, come sarò veramente umano? Guardando a lui.

Ma è un'evoluzione rispetto al concetto di Messia, il concetto che abbiamo noi di Gesù come Dio. La Trinità va bene, il figlio di Dio, ma con tutto quanto.

Bisogna tener conto che, nella meditazione ebraica soprattutto tardiva, il Messia è una figura letteraria che copre l'intervento di Dio. Più la figura del Messia viene enfatizzata, più le si danno delle caratteristiche sovrumane. Si intuisce che è qualcosa che deve venire dall'alto, che non può essere semplicemente generato dal basso, anche se sotto la guida della provvidenza divina. Questa enfatizzazione del Messia prepara la meditazione cristiana: con la coscienza dell'esaltazione di Gesù alla destra del Padre, quella che, agli occhi dell'uomo, è una storia di fallimento è stata invece l'apparizione tanto attesa del Messia.