Terza Serata
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Terza Serata
Cagliari 7 aprile 2001

Il tema di questa conferenza è stato sviluppato in Garuti P,. Monumento e documento: la prossimità del Calvario al Santo Sepolcro nei testi e nei rilievi archeologici, in "Atti e Memorie della Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti – Modena” (Serie VIII, vol. I, 1997 – 1998), Modena 1999, pp. 163178.
Pubblichiamo questo documento, con il permesso e ringraziando l'Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti – Modena nella terza appendice da pagina 141.

 

 

Bisogna essere curiosi quando si accostano testi che, per quanto sacri, sono un appello alla nostra persona nella sua interezza e, quindi, anche alla nostra intelligenza, soprattutto perché la nostra non è una fede basata su dei principi rivelati in maniera astratta, ma su una storia.

Due curiosità guideranno il nostro lavoro, questa sera.1 La prima sorge in tutti coloro che approdano a Gerusalemme in pellegrinaggio: spesso chiedono come mai una sola chiesa, un solo tetto, copra tanto il luogo della morte che quello della sepoltura di Gesù. Si potrebbe credere che si tratti di un accostamento devozionale, che tutto sia concentrato in un solo luogo di culto per favorire le cerimonie. Si risponde, di solito, che i vangeli stessi dicono: "nel luogo in cui fu crocifisso c'era un orto e nell'orto un sepolcro nuovo in cui non era stato posto ancora nessuno" (Giovanni 19,41). Quindi, il luogo della crocifissione era vicino al luogo del sepolcro. Ma dovremo chiederci perché era vicino: nelle nostre raffigurazioni del calvario, ma non in tutte, il monte non dà l'impressione di essere anche un luogo di sepolture, se non per quel piccolo teschietto alla base della croce.

L'altra curiosità coinvolge più gli addetti ai lavori. È relativa ad una frase che diciamo tutte le domeniche nel Credo e che può sembrare eccessiva nei dettagli per una formula così secca come la formula che contiene solo le verità essenziali della fede.

Il Credo di Nicea, poi quello Nicenocostantinopolitano che recitiamo ogni domenica, afferma: "Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto e il terzo giorno è resuscitato secondo le scritture". Perché questa insistenza sulla sepoltura di Cristo? Non bastava dire morì e resuscitò? Ma questo insistere sulla sua sepoltura viene da dei testi fra i più antichi che noi troviamo nel Nuovo Testamento. Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo dice: "Vi ho trasmesso anzitutto quello che ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le scritture, che fu sepolto, che fu resuscitato il terzo giorno secondo le scritture" (15,3-4). S. Paolo, che scrive questo testo verso la metà del primo secolo, parla di qualcosa che lui stesso ha ricevuto, e, poiché trasmette una formula, fa riferimento ad una tradizione. Al tesoro della Chiesa che lo ha iniziato alla fede. Ebbene, in questa formuletta, in questo piccolo Credo, si insiste sulla sepoltura di Gesù. Non è l'unico testo che fa pensare si tratti di un Credo della chiesa primitiva. Si leggano Atti 13,28-30, dove S. Paolo, che è l'attore di questo incontro nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, proclama ai suoi correligionari che "gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi, pur non avendo trovato nessun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che fosse crocifisso; quando ebbero compiuto tutto ciò che era stato scritto intorno a lui, lo deposero dal patibolo e lo misero in un sepolcro ma Dio lo ha resuscitato dai morti". È importante quel "ma", perché fa come da punto di confine fra due serie di azioni: le azioni che Cristo subisce malgrado non sia stato trovato in lui nessun motivo di condanna a morte ed il fatto che sia stato resuscitato da Dio.

Questa formulazione "ma Dio lo resuscitò dai morti" è di tipo arcaico. Di solito si dice che queste espressioni secondo le quali Dio lo ha resuscitato, sono più antiche di quelle in cui si afferma che egli è risuscitato.

Ci troviamo di fronte ad un testo che Luca mette in bocca a Paolo come affermazione delle cose ingiuste che il Cristo ha subito e della giustizia che gli è stata resa da Dio quando lo ha resuscitato dai morti. La sepoltura sarebbe quindi una delle angherie subite da Gesù? È importante, anzitutto, che si parli della sepoltura perché, per i condannati alla crocifissione, normalmente, non era prevista. Tuttavia se ne parla, in entrambi i testi che abbiamo letto, come di un qualche cosa che rientra nell'ambito della condanna. Questo ci spinge a riguardare i testi relativi alla sepoltura di Gesù. Giovanni (19,31-42), il testo più lungo e complesso, narra: "I giudei, siccome era giorno di preparazione perché i corpi non rimanessero sulla croce di sabato (perché era giorno solenne) chiesero a Pilato che spezzassero loro le gambe e venissero tolti". Segue il racconto del colpo di lancia. Versetto 38: "Dopo questo, Giuseppe d'Arimatea che era discepolo di Gesù, ma in segreto per paura dei giudei, chiese a Pilato di togliere il corpo di Gesù; Pilato lo concesse". Abbiamo una seconda richiesta di togliere il corpo di Gesù. Questo già rende il testo più macchinoso: prima sono i giudei che chiedono di uccidere i tre condannati (spezzare le gambe significava ucciderli, perché impediva loro di sollevarsi e far riprendere la circolazione del sangue e il fiato, così da prolungare l'agonia) e toglierli dalla croce, che è la cosa essenziale (e vedremo perché è importante che i corpi non rimangono sulla croce durante la notte). Nel caso di Gesù, Giuseppe si fa coraggio, chiede di nuovo di togliere il corpo di Gesù. "Pilato lo concesse, venne dunque e tolse il suo corpo. Venne anche Nicodemo, il quale già prima era andato da lui di notte, portando una mistura di mirra e aloe di circa 100 libbre. Presero dunque il corpo di Gesù e lo avvolsero con bende insieme agli aromi secondo l'usanza di seppellire dei giudei. Nel luogo in cui fu crocifisso c'era un orto e nell'orto un sepolcro nuovo in cui non era stato ancora posto nessuno".

Quest'ultimo versetto pone un problema perché alcuni codici, alcuni manoscritti antichi, invece che "nuovo" leggono "vuoto": "un sepolcro vuoto in cui non era stato posto ancora nessuno".

Sappiamo da un testo di tradizione giudaica, posteriore di 200 anni a questi avvenimenti, ma che riporta la tradizione giuridica, la Mishnah nel Trattato dei Tribunali (Sanhedrin 6,5-6): "non si seppellisce il condannato nella tomba dei suoi padri ma due cimiteri sono stati approntati per il tribunale. Uno per gli uccisi e per gli strangolati, l'altro per i lapidati e i bruciati. Solo quando le carni saranno consumate se ne raccoglieranno le ossa e si seppelliranno nel loro luogo (vale a dire con la famiglia); i parenti vengono e salutano giudici e testimoni per significare che non serbano loro rancore". Questa tradizione della Mishnah riporta ai tempi in cui in Gerusalemme ancora governava il sinedrio e potrebbe spiegare perché un sepolcro vuoto. Il corpo del condannato a morte faceva paura, poteva trasmettere la maledizione. Seppellirlo con gli altri corpi era un comunicare la maledizione alla famiglia. Comunque sia il testo di Giovanni, nuovo o vuoto, è certo che non vi era stato deposto ancora nessuno.

Dovete pensare a sepolcri multipli: sullo stesso lettino o nello stesso sarcofago potevano essere messi molti cadaveri l'uno sull'altro, oppure nella stessa stanza si potevano aprire diversi loculi. Quindi, si considera sepolcro l'intera stanzetta. Si afferma che non c'era nessuno a cui trasmettere eventualmente la maledizione del condannato, ma anche che, in seguito, le donne che trovano il sepolcro vuoto non possono essersi sbagliate.

La variante più interessante, anche perché testimoniata da manoscritti molto importanti, è alla fine del versetto 38.

Alcuni leggono: " vennero dunque e tolsero il corpo", al plurale. C'è una regola di critica testuale, per quanto possano valere queste regole, secondo la quale più il testo è difficile, più è strano, più è originale, perché si pensa che un correttore rende il testo più logico, non più illogico. Ora, il plurale sarebbe più originale, più antico, perché fino a quel momento si parla solo di Giuseppe d'Arimatea, Nicodemo entra in scena solo in seguito. È per questo che i copisti correggono con un singolare, mentre quel plurale, quando l'unico personaggio è Giuseppe d'Arimatea, dà l'idea che egli abbia agito insieme a qualcun altro, ma non a Nicodemo che deve ancora apparire. Se teniamo il plurale, dovremmo pensare che Giuseppe d'Arimatea con degli altri anonimi, viene, toglie il corpo dalla croce e lo depone nel sepolcro.

In effetti possiamo elaborare alcune teorie. Nel vangelo di Giovanni le tradizioni confluiscono e molto spesso sono giustapposte in maniera talmente rispettosa della tradizione stessa, da dare l'impressione che l'evangelista abbia creato degli assurdi. Il caso più citato è quello di Maria Maddalena: tutti gli evangelisti mettono tre Marie al sepolcro, Giovanni non ama gli anonimi e le folle senza volto, vuole sempre un personaggio, qualcuno che possa recitare sulla scena quello che succede. Mette così una donna sola, solo che, poi, Maria Maddalena si mette a parlare come il Papa, dice infatti: "hanno portato via il Signore e ‘non sappiamo’ dove l'hanno posto". Giovanni eredita la frase dal deposito degli altri sinottici, poi mette in scena un personaggio solo, ma rispetta la frase col plurale. Ora, anche in questo caso, Giovanni eredita una tradizione molto simile a quella di Atti e di Prima Corinti, la rispetta, anche se crea una scena tutta sua, aggiungendo Nicodemo, di cui gli altri non parlano.

Potremmo così ricostruire il testo che soggiace a Giovanni: "i Giudei siccome era giorno di preparazione perché i corpi non rimanessero sulla croce di sabato, chiesero a Pilato che spezzassero loro le gambe e venissero tolti. Vennero dunque e lo avvolsero con bende e deposero Gesù in un sepolcro (vuoto o nuovo, come preferite)". Avremmo quindi un plurale generico simile a quello usato da Paolo e da Luca. Su questo canovaccio, il più antico, in cui la sepoltura è anonima e fatta dall'autorità giudaica, probabilmente, costruisce un suo racconto. Inserisce, anzitutto, il personaggio di Giuseppe d'Arimatea, che conosce dalla tradizione dei sinottici, ma lascia il plurale, facendo intendere che per lui Giuseppe d'Arimatea ha a che fare in qualche modo con gli ufficiali del sinedrio, come del resto dicono anche gli altri evangelisti. Poi, proprio perché si trova quel plurale, inserisce un altro personaggio, Nicodemo, che interviene nell'unzione del corpo. Vi faccio notare che Giovanni è l'unico che riporta l'unzione come avvenuta; gli altri evangelisti invece dicono che non fu unto, che le donne andarono al sepolcro dopo il sabato per ungere con aromi quel corpo, ma non lo trovarono più.

L'unzione era vietata per un condannato a morte, perché era un segno d'onore. Il condannato a morte, a Roma, veniva gettato in un campo. Per rispetto alla Città Santa degli Ebrei, poteva essere sepolto, su richiesta, ma non certo onorato con gli aromi. Giovanni non si limita a dire che Nicodemo unge il corpo di Gesù, parla di 100 libbre di olio profumato con aloe: 32,6 kg.
Giovanni ama esagerare, come abbiamo visto a proposito del distaccamento militare che si recò a prendere Gesù al Getzemani.

Era importante togliere quel cadavere dalla croce perché la notte, scendendo, avrebbe fatto da veicolo alla maledizione del condannato a morte. Questa sarebbe passata alla sgente e soprattutto alla terra, rendendola infeconda, secondo un detto che troviamo in Deuteronomio 21,23, a proposito non di un crocifisso ma di un ucciso per lapidazione poi attaccato ad un legno come monito: "Il suo cadavere non passi la notte sull'albero, lo devi seppellire in quello stesso giorno, perché un appeso è una maledizione di Dio e tu non devi contaminare il suolo che il Signore tuo Dio ti dona in eredità".

Noi intendiamo oggi la morte come un fatto più o meno istantaneo. Per la mentalità antica, in particolare per la mentalità biblica, finché c'è corpo c'è la persona, per questo gli egiziani cercavano di conservare il più possibile il corpo. È una vita diminuita, una vita che è una non vita: però la persona sussiste e, se quella persona è stata caricata di una condanna, di una maledizione, il suo corpo porta la maledizione, come viceversa il corpo di un santo porta la benedizione. Questo principio è all'origine anche del culto delle reliquie: sappiamo benissimo che quella materia non è più la persona del santo, ma la veneriamo. Il comandamento di Deuteronomio 21 è rivolto evidentemente al popolo, ma possiamo supporre che chi si incaricava di questo lavoro fossero gli stessi che avevano l'amministrazione di quei cimiteri approntati per i condannati a morte, cioè gli ufficiali del sinedrio.

Giuseppe Flavio nella Guerra Giudaica riporta il caso di due sommi sacerdoti uccisi dagli Zeloti e dagli idumei: "la gente di Gerusalemme giunse a tal punto di empietà da gettarli via insepolti mentre i giudei si danno tanta cura di seppellire i morti che finanche i condannati alla crocifissione vengono deposti e sepolti prima del calare del sole". In genere, il corpo morto, fosse pure di un animale, comporta impurità, anche perché poteva diffondere il contagio di malattie; il condannato a maggior ragione. Per questo Giuseppe Flavio, nel riportare il caso di questi due personaggi uccisi in una rivolta popolare, afferma che li odiavano a tal punto da derogare da una norma severa, seppellire i condannati. Che Gesù morto sia diventato un corpo che poteva, per la mentalità d'allora, trasmettere la maledizione, è un argomento utilizzato anche da Paolo nella lettera ai Galati (3,13): "Cristo ci ha riscattati liberandoci dalla maledizione della legge divenuto per noi maledizione, poiché sta scritto: maledetto chi è appeso ad un legno". Ovviamente con la metonimia "divenuto maledizione", intende che è stato considerato corpo in grado di trasmettere maledizione; ma, paradossalmente, è invece benedizione.

Con Giuseppe d'Arimatea assistiamo ad un curioso fenomeno, se compariamo tra loro i vangeli. È una figura che tende a crescere. Racconta Matteo: "quando fu sera venne un uomo ricco di Arimatea, di nome Giuseppe, il quale era anch'egli discepolo di Gesù. Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Pilato ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe quindi, preso il corpo, lo avvolse in una sindone pulita e lo depose nel proprio sepolcro, che da poco aveva scavato nella roccia; rotolò una grossa pietra all'entrata del sepolcro e se ne andò. C'erano là Maria Maddalena e l'altra Maria sedute di fronte al sepolcro."

Di nuovo impariamo da Matteo che Giuseppe è un uomo ricco, che era già discepolo di Gesù, che chiede gli venga dato il corpo, non di togliere il corpo dalla croce. Prende il corpo lo depone dalla croce, lo avvolge in una sindone pulita e lo mette nella sua tomba; è ricco, ha una tomba di proprietà, non in affitto come la maggioranza della popolazione.

È Marco che aggiunge che si tratta di un membro del consiglio, però non ci dice che fosse ricco, lo lascia sottinteso: "fattasi ormai sera poiché era la parasceve, vale a dire il giorno prima del sabato, Giuseppe d'Arimatea, distinto membro del consiglio, il quale aspettava anche lui il regno di Dio, venne, si fece coraggio, entrò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. (non chiede che sia tolto, invece in Giovanni chiedeva che fosse tolto). Pilato si meravigliò che fosse già morto perciò, chiamato il centurione, gli domandò se fosse morto da tempo; informato dal centurione, concesse il cadavere a Giuseppe il quale, comperato un panno di lino, fece deporre Gesù, lo avvolse nel panno di lino e lo pose in un sepolcro che era stato tagliato nella roccia. Quindi sulla porta del sepolcro fece rotolare la pietra".

Di nuovo dal racconto di Marco sappiamo solo che era un distinto membro del consiglio, e che incarica altri di compiere le azioni necessarie e faticose, deporre il corpo e rotolare la pietra.

Luca ha in comune con Giovanni (vi ho già spiegato queste parentele tra Luca e Giovanni, c'è sotto forse un documento gerosolimitano sui fatti della morte e resurrezione del Signore) il particolare che nel sepolcro non era ancora stato posto nessuno ed anche lui non dice che quella tomba appartenesse a Giuseppe: "Giuseppe era nativo di Arimatea, aspettava il regno di Dio" e Luca aggiunge: "era un membro del sinedrio, ma non si era associato alla loro deliberazione e alla loro azione". Ora, chi ci dice che Giuseppe fosse un uomo ricco? È solo Matteo, e noi penseremmo che è un tratto realistico perché sono quelle notizie così gratuite da far pensare che l'evangelista le riporti perché ne era al corrente. Tuttavia, Matteo sta utilizzando un testo che abbiamo già incontrato in queste serate. Precisamente Isaia 53,9, nell'ambito dei canti del servo del Signore, luoghi messianici per eccellenza dal punto di vista di un messianismo legato alla sofferenza. Il testo del versetto 9 dice: "gli diedero sepoltura con gli empi, e il suo sepolcro è con il ricco benché non abbia commesso violenze e non vi fosse inganno nella sua bocca". Forse il testo ha subito una mutazione, passata ai Settanta: ashir potrebbe essere una corruzione dell'ebraico osse ra‘ , colui che fa il male: "gli diedero sepoltura con gli empi, il suo sepolcro fu con il malfattore". Matteo lo conosceva nel testo greco.

Se ricordiamo il piccolo Credo che abbiamo letto all'inizio: "fu ucciso secondo la Scrittura, fu sepolto e risuscitato secondo la Scrittura" è ovvio che si andasse a cercare un versetto della Scrittura anche per la sepoltura. Poiché questo versetto della Scrittura l'abbiamo già visto in opera nella scena del Getzemani, quando Gesù dice: "bisogna che si adempia la Scrittura". Il secondo stico del versetto di Isaia "benché non abbia commesso violenze, non vi fosse inganno nella sua bocca" è forse riecheggiato nel testo di At 13,28: "non avendo trovato nessun tipo di condanna a morte in lui", ma quello che è certo è che Matteo si aggancia a quest'idea del ricco per nobilitare un poco la sepoltura di Gesù; perché se ci si fosse fermati alla prima parte del versetto "il suo sepolcro fu con gli empi", saremmo ricaduti nell'idea, presente nella Mishnah, di un cimitero per i condannati a morte: una sorta di cimitero comune, anonimo, per gente maledetta che trasmette la maledizione. Avete visto come, in questi passi, Giuseppe d'Arimatea diventa sempre più importante fino a diventare un discepolo di Gesù, un amico. Perché? Vi ho riportato alcuni testi che guardiamo velocemente, sono quelli relativi all'unzione di Betania; anche il fatto che Gesù non sia stato unto faceva problema: Marco, Matteo e Giovanni cercano di correggere il tiro. Giovanni ci dice chiaramente che Gesù fu unto; Luca non dice niente, Marco e Matteo affermano che non fu unto, perché quando le donne andarono per ungerlo era già risorto, però era stato quasi preunto da Maria a Betania. Notiamo, cioè, un certo imbarazzo. Di solito, gli studiosi spiegano il fenomeno supponendo che i primi cristiani non riuscissero ad ammettere che il loro Messia fosse stato sepolto in una maniera così anonima e disonorevole.

Credo che ci sia un altro motivo molto importante. Per capirlo bisogna andare ad una scena strana, ambientata nella vita di Gesù in Galilea, la scena del Signore che cammina sul mare (o lungo il mare). Luca, che parla in ambiente etnicocristiano, riporta invece una delle apparizioni di Gesù dopo la resurrezione. Lc 24,37 recita: "sconvolti e pieni di paura credevano di vedere un fantasma". Luca ha talmente timore della parola fantasma che usa la parola pneuma; credevano di vedere uno spirito. "Ed egli disse loro: perché sorgono dubbi, guardate le mie mani ed i miei piedi, sono proprio io (notate anche qui una parentela fra Giovanni e Luca) toccatemi ed osservate: uno spirito non ha carne ed ossa come vedete che io ho". Luca non parla di una preunzione, perché per i suoi documenti (e i suoi lettori) l'unzione non era considerata gesto d'onore destinato a placare il morto.

Era necessario mettere in chiaro che Gesù risorto non era un fantasma e, di conseguenza, togliere l'impressione che fosse stato mal sepolto.

Nella cultura mediterranea, dai tempi dell'epopea di Gilgamesch (ma abbiamo anche testimonianze di ambiente grecoromano: per esempio nelle lettere di Plinio il Giovane), l'idea che qualcuno che non era stato sepolto con tutti gli onori potesse ritornare era corrente.

Si poteva pensare che, sì, Gesù era risorto, ma che fosse apparso (non è risorto come Lazzaro che ha continuato a vivere nella casa di Betania, non è risorto come il figlio della vedova di Naim che si suppone sia rimasto con sua madre, o della vedova di Sarepta nella storia di Elia) come un fantasma, venuto a chiedere giustizia. I primi testimoni, esasperando i tratti onorevoli della sua sepoltura e il personaggio Giuseppe d'Arimatea, membro del sinedrio ma simpatizzante per Gesù, intendono combattere questa credenza.

Questo spiega il perché del calvario vicino al Santo Sepolcro. Scavando sotto la Basilica, si trova una cava dismessa, sulla parete della quale erano stati scavati dei corridoi con dei loculi, in parte ancora visibili.

Probabilmente questo terreno infertile è stato utilizzato per le condanne a morte e, come tutti i luoghi di tal genere, era considerato maledetto. Gerolamo afferma, nel commento a Matteo: "E vennero al luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio: mi è capitato di sentire qualcuno affermare che il luogo è detto calvario perché là sarebbe stato sepolto Adamo e pertanto ivi è posto il capo del primo uomo". Ma non sembra crederci, poiché continua: "all'esterno della città, infatti, fuori della porta, vi sono luoghi in cui si usa recidere la testa dei condannati". Anche il nome Golgota (dalla radice galgal che indica qualcosa di tondo) fa riferimento alla testa, quindi alla decollazione.

In altri termini, il sinedrio aveva a disposizione un luogo (o più) sia per l'esecuzione dei condannati a morte, sia per la loro sepoltura, ed è normale pensare che si trattasse di complessi isolati e utilizzati per entrambi gli scopi. Troviamo questa memoria nelle primissime testimonianze apostoliche (Prima Corinti, Atti), dove la sepoltura è vista come una delle angherie subite da Gesù. L'imbarazzo mostrato dai testi più recenti deve correggere un pò anche le nostre vedute sulla resurrezione: Gesù non è un fantasma, non è venuto a chiedere giustizia, per questo non è apparso ai sommi sacerdoti. Ai discepoli dice "pace a voi", non grida vendetta come di solito i fantasmi di quanti hanno subito violenza, nella cultura mediterranea (e nella Danimarca di Amleto). Secondo il loro costume, le testimonianze evangeliche traducono un principio teologico in tratto narrativo.

È interessante vedere, nel racconto della resurrezione secondo Giovanni, le tradizioni unificate in un solo testo: la frase "dove lo hanno posto", che prevede una sepoltura anonima, viene attribuita alla Maddalena ben due volte: è quella del primo Credo: "lo posero in un sepolcro", che si ritrova anche in Mc 16,6, ma viene trasformata nell'espressione di un dubbio circa il comportamento di altri che non i discepoli: "non sappiamo dove lo hanno messo". Fa poi seguito, in Gv 20,12, il più recente "dove giaceva", che si legge in Mt 28,6. Marco, che probabilmente risente di una fonte più antica, mantiene il senso polemico delle prime affermazioni: "ecco dove volevano imprigionarlo", concetto che Luca sviluppa in "perché cercate tra i morti colui che è vivo?" (Lc 24,5). Morti reduplicative, direbbero i teologi: maledetti, condannati, schiacciati dalla storia, messi da parte. Egli è vivo, ma non come un fantasma che venga a disturbare i viventi perché lo hanno ucciso.

Abbiamo concluso il nostro percorso. Abbiamo ricostruito, nei limiti del possibile, con i testi che abbiamo sottomano, gli avvenimenti di quegli ultimi giorni.

I vangeli hanno una loro prospettiva, che evidentemente incentra tutto su Gesù, ma ci danno lo stesso il contesto di una sommossa, dell'opportunità di scaricare su Gesù la tensione di quei giorni (vittima per i peccati altrui), e ci hanno condotti a quel mistero che, proprio perché i primi credenti hanno difficoltà a spiegare che cos'è Gesù risorto, appare ancora più impressionante. Se avessero inventato una storia l'avrebbero forse inventata diversa: senza la difficoltà a farci capire esattamente cosa hanno visto e provato. Ma vogliono mettere bene in chiaro che è l'esperienza di un vivente, che non vive più una vita destinata alla morte come la nostra, come quella di Lazzaro o del figlio della vedova di Naim, ma che ha vinto la morte. La stessa morte che aveva già vinto durante la sua esperienza terrena, nel momento in cui decise di stare dalla parte del Dio vivente.

 

 

Dibattito

Vorrei vedere la morte di Gesù più che come morte, come un riposo: messo in condizioni, con Genesi dove si dice che, quando ha completato la creazione, il Signore completa il lavoro il settimo giorno e poi riposa, così in Giovanni c'è questa connessione: "tutto è compiuto". Ecco che Gesù muore, egli che ha due nature, natura umana e natura divina, ora la persona moderna come può parlare di morte piuttosto che di riposo anche perché da un morto come può nascere la Chiesa?

La liturgia post-conciliare giustamente dedica il sabato santo al tema del riposo, leggendo, nell'ufficio delle letture, il capitolo quarto della lettera agli Ebrei. Nei testi del Nuovo Testamento questo tema però si trova poco, si trova di più nella meditazione posteriore. Quando invece cerchiamo di chiederci in che termini si possa parlare di morte, va detto che si tratta di una morte vera. Addirittura, non è eretico dire, in virtù dell'unione ipostatica, che Dio muore. Sono cose sempre difficili da spiegare, perché proiettiamo le nostre concezioni storicizzate nel nostro tempo. Già all'epoca di Gesù avevano un altro concetto della morte: era meno la fine di tutto di quanto non possa sembrare a noi. Ma non scherziamo, quando affermiamo che Gesù morì, come non è uno scherzo quando professiamo di lui che era veramente uomo, anche perché nella verità dell'essere umano.

Facciamo fatica a proiettare le nostre categorie di vita e di morte su Dio, ma questo non vuole dire che almeno la teologia cattolica ufficiale e tradizionale non affermi anche che sulla croce Dio è morto, come che l'uomo Gesù ha pienamente vissuto quel mistero. Non mi piace addolcire il dramma di Cristo, perché ci fa sfuggire da quella che è la scommessa fondamentale della nostra esistenza. Tale scommessa non è il riposo: è la morte, è l'idea che tutto quel patrimonio che siamo coscienti di essere sparisca. Passiamo tanti anni a crederci il centro del mondo (e ciò gioca nelle nostre scelte in maniera davvero mortifera), che ritenere che Gesù, che fu nostro precursore (per usare un'espressione della lettera agli Ebrei) nell'affrontare la morte, abbia tutto sommato fatto finta perché era Dio, non dice niente a chi vive la scommessa della morte e della vita come tutti noi. Poiché, quando parliamo di Gesù, abbiamo tutti la tendenza a immedesimarci in lui, col Gesù che affronta la vita, che dice chiaro le cose, facciamo più fatica che a ritrovarci nel bambinello di Betlemme o nel Risorto. Ma stiamo attenti a queste immedesimazioni perché molto spesso cerchiamo di addolcire la pillola in nome dei nostri sogni di onnipotenza, per sfuggire alla paura che ci fa la morte. Ciò non toglie che, giustamente, la liturgia ci proponga il sabato santo come giorno del riposo, anche se, come diceva Paolo, noi predichiamo Cristo e Cristo crocifisso. Solo in questa professione di fede incontriamo ogni essere umano e non fuggiamo da noi stessi.

Nei racconti precedenti gli apostoli sono più protagonisti di quanto lo siano in questo momento finale, mentre sembrerebbero più centrati i personaggi che nel contesto evangelico sono più marginali, come mai? Io mi sarei aspettato un protagonismo diverso, anche come testimonianze del momento della resurrezione: arrivano quasi alla fine, prima compaiono tutti gli altri personaggi, loro compaiono quasi alla spicciolata.

Questo problema lo pongono anche i testi che abbiamo visto ieri sera: con l'arresto al Getzemani, tutti fuggirono. Nel vangelo di Giovanni abbiamo trovato la giustificazione: è Gesù che li congeda. Evidentemente il problema che lei si pone se lo ponevano anche loro. Di fatto i discepoli si disperdono, il che è abbastanza comprensibile nel quadro di cui abbiamo parlato: vi è una possibile identificazione fra gli attori di quella sommossa e i galilei, almeno nella coscienza della gente di Gerusalemme. C'è un elemento etnico in gioco. Sappiamo che la condanna alla croce era una delle più esemplari, era la condanna degli schiavi ribelli, e doveva servire a impressionare anche gente di non grande sensibilità, abituata alla morte, alla malattia, alla miseria. Tutti i poteri di questo mondo amano fare sceneggiate tragiche, fossero asettiche come le odierne. E sempre in funzione dei poveracci che tanto non hanno niente da perdere: facciamo vedere almeno che hanno da guadagnare ad essere calmi, per evitare grandi sofferenze. Nel caso della crocifissione, l'allontanamento dei parenti e degli amici dalla croce poteva essere utilizzato come elemento di deterrenza, accresceva la tragicità della morte. Deterrenza anche quanto a motivazioni di tipo politico o politico religioso. Ma, per evitare che la visione del maestro appeso causi ulteriori tumulti, perché gli animi sono esacerbati, può essere prudente un allontanamento degli amici: le donne ponevano meno problemi. Gli unici personaggi, a parte Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea (che avevano un ruolo istituzionale), che vengono citati da Giovanni, sono Maria e il "discepolo che Gesù amava", una donna ed un uomo noto al sommo sacerdote.

Vorrei sapere come è stato seppellito perché Marco, Matteo, Luca e Giovanni usano tutti termini diversi; sindone, panni di lino, lenzuolo, bende… poi Giovanni alla resurrezione dice: "trova le bende e il sudario piegato"; ecco: com'era fatta la sepoltura di Gesù, in croce aveva veramente quel panno messo in quel modo?

La funzione della Sindone è diversa da quella delle bende, che sono un modo per legare il morto e, quindi, simbolo di non vita: quando Lazzaro è risuscitato, Gesù chiede ai discepoli di slegarlo, segno del ruolo post-battesimale della comunità. Il sudario poteva essere un elemento d'onore, ma dobbiamo distinguere fra un panno messo sul volto e un lenzuolo funebre. Potremmo ritenere che, nel contesto della lettura che abbiamo fatto, appartenesse allo stesso genere dei gesti attribuiti ad una pretesa sepoltura onorevole di Gesù.