Dal Vangelo ai Vangeli: Seconda Conferenza
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Appendice prima

Dal Vangelo ai Vangeli
Seconda Conferenza

Conferenze tenute a Bologna per il Centro San Domenico

Nel definire la problematica sui vangeli "Questione Sinottica", l'aggettivo è limitante perché, di solito, con "sinottico" si intende lo studio delle diversità e delle somiglianze fra gli scritti di Luca, Matteo e Marco, mentre è necessario, per il nostro tipo d'indagine, accostare anche il vangelo di Giovanni, in particolare nelle sezioni finali, ed anche, eventualmente, alcuni dei cosiddetti vangeli apocrifi, in particolare il vangelo di Pietro e il vangelo copto di Tommaso.

In una prima parte di questo incontro, però, compiremo il percorso tradizionale, cercando di spiegare il fenomeno delle somiglianze e delle diversità, ed altri vicini a questo.

Partiamo dalla superficie: la personalità letteraria e teologica di ogni vangelo, e, per quanto possibile, della comunità per la quale è stato scritto: quello che abitualmente chiamiamo il "lettore implicito", vale a dire il ricettore immaginario cui lo scrivente si riferisce, quando scrive una qualunque opera letteraria. Luca, da cui incominceremo, ha dichiarato esplicitamente che per lui il lettore implicito è Teofilo (nome simbolico: l'amico di Dio) che incomincia a dubitare della solidità degli argomenti su cui si basa la sua fede: in particolare sulla solidità dei racconti relativi alla vita, alla morte ed alla resurrezione del Signore.

Luca, insieme a Paolo, è la personalità letteraria, più facilmente individuabile nel Nuovo Testamento: a lui dobbiamo molto. Vi sono altre personalità marcate: l'autore di Apocalisse è senz'altro, dal punto di vista letterario, il più imaginifico, ma non ha prodotto altro che Apocalisse. Il Giovanni delle lettere e del vangelo è anch'egli una personalità di spicco, ma dovremmo parlare piuttosto di scuola giovannea. Luca invece è responsabile del suo vangelo, degli Atti degli Apostoli e, anche se non esistono molti studi al riguardo poiché è una pista sulla quale stiamo lavorando, pare che sia responsabile di molto, fino a poterci far dire, con una battuta, che se fino a qualche tempo fa si riteneva che il cristianesimo fosse stato fondato da Gesù, ma in realtà inventato da san Paolo, oggi si potrebbe affermare che il cristianesimo è stato fondato da Gesù, inventato da san Paolo, ma strutturato letterariamente da Luca: il suo intervento non si limita alla stesura del vangelo e degli Atti, ma può essere all'origine dell'edizione delle lettere di Paolo e, forse, anche del nucleo originario del Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento, a differenza dell'Antico, non è il prodotto di un tempio o di una istituzione che nel lungo correre di secoli seleziona gli scritti che ritiene significativi, secondo lo stile che nell'antichità era proprio delle biblioteche di palazzo; si tratta invece di opere d'origine popolare, o personale, come le lettere di Paolo, che vengono raccolte, selezionate, edite, pubblicate da qualcuno. Forse Luca è il segretario che ha prodotto il primissimo nucleo del Nuovo Testamento e delle lettere di Paolo, o a lui attribuite.

È strano che questa persona, che sarebbe responsabile di tanta parte del Nuovo Testamento, abbia poi subito una sorta di affronto, di vendetta della storia, di nemesis, perché la sua opera personale, vangelo ed Atti, si è trovata smembrata in due, per una disposizione che volle i testi evangelici precedere quelli che narrano della Chiesa delle origini: gli Atti degli Apostoli non seguono immediatamente il terzo vangelo, cosicché il lettore non percepisce la continuità che invece Luca voleva dare alla sua opera: un'opera in due libri (ammesso che sia stato lui a scrivere le due introduzioni) avente una sua unitarietà non solo di stile, di indole letteraria, ma anche teologica.

Luca, spesso chiamato l'architetto della Chiesa delle origini, pur venendo da Antiochia, è espressione della centralità di Gerusalemme nella storia della Chiesa. Il suo vangelo inizia a Gerusalemme, con l'apparizione dell'angelo a Zaccaria; riassume una buona parte dei discorsi di Gesù nel lungo viaggio verso Gerusalemme; da Gerusalemme parte la predicazione degli apostoli, ove hanno ricevuto l'ordine di rimanere, mentre negli altri vangeli sinottici leggiamo che dovettero andare in Galilea, perché da Gerusalemme deve partire l'evangelizzazione; a Gerusalemme scende lo Spirito. Alla fine, come una lunga onda, la buona novella approda ad un'altra città: Roma, centro dell'Impero e del mondo. Una sorta di piano geografico; Luca è estremamente attento ai dati geografici, anche se ad essi attribuisce spesso valore simbolico. Buona parte dei discorsi di Gesù, che troviamo raccolti da Matteo in cinque ruote di discorsi compatti, in Luca si leggono dispersi nel lungo itinerario verso Gerusalemme: Gesù stesso afferma che a Gerusalemme troverà "la sua perfezione". Luca è molto vicino alla comunità di Gerusalemme, almeno quanto alle sue fonti. Per un discepolo di Paolo può anche sembrare cosa strana, perché Paolo con Gerusalemme ha dei rapporti piuttosto tesi. Non a caso, confrontando il racconto lucano degli incontri fra l'Apostolo e la comunità di Gerusalemme e il racconto che in prima persona ne fa Paolo nella lettera ai Galati, si nota una evidente forzatura di Atti, che cerca di darcene un'immagine irenica per salvare la centralità della comunità originaria. Paolo è molto più libero rispetto a quelli che chiamava i "superapostoli" di Gerusalemme. Dobbiamo quindi anche aspettarci che le sue fonti diano rilievo alla comunità di Gerusalemme. In particolare, un documento che narra gli avvenimenti che Gesù visse a Gerusalemme e un documento, che chiamiamo P perché incentrato sulla figura di Pietro, che racconta le origini della Chiesa a Gerusalemme, in termini parecchio idealizzati.

Questo fenomeno avvicina Luca a Giovanni; anche Giovanni, lo si comprende leggendo alcuni brani della passione e della resurrezione, ha in comune con Luca un documento gerosolomitano, che usa in maniera molto più estesa, in cui sono centrali Maria, madre del Signore, e la famiglia di Lazzaro. Luca fa di quest'ultimo il personaggio di una parabola, quella del ricco Epulone, mentre Giovanni gli dà un ruolo centrale, fino a farci sospettare che sia Lazzaro il "discepolo che Gesù amava", non Giovanni come vorrebbe la tradizione, perché sembra che tutto ruoti intorno alla sua famiglia.

Questa comunanza fra i due evangelisti può sembrare strana, ma non lo è troppo, perché da tempo si è detto che Giovanni ha composto il suo vangelo avendo sotto gli occhi quello di Luca. Oggi riteniamo piuttosto che Giovanni abbia ricevuto e usato in maniera più completa, e senza tanti complessi, un documento che origina dalla comunità di Gerusalemme.

Luca era più obbediente alla linea paolina, mentre Giovanni è più libero, anzi a volte induce al sospetto di essere contrario a questa e più gerosolimitano.

Luca è anche in contatto (anche in questo si avvicina a Giovanni) con testimonianze importanti su Giovanni Battista: negli Atti degli Apostoli, nei vangeli di Luca e di Giovanni, la figura del Battista ha un rilievo notevole, non è solo un personaggio della narrazione. Si nota la presenza di documenti relativi alla sua vita, provenienti dalla cerchia dei suoi discepoli. Se leggiamo con una certa attenzione e spirito un pò critico il racconto della nascita di Gesù secondo Luca, i primi due capitoli del terzo vangelo, rileviamo che è un dittico: le tappe dell'infanzia di Giovanni Battista precedono quelle analoghe di Gesù, che sembrano ricalcate su quelle del Precursore, con alcune stranezze: un salmo, il Magnificat, per esempio, che è il canto della donna sterile, e che dunque sarebbe stato più appropriato ad Elisabetta, donna sterile, viene trasferito a Maria. L'infanzia del Battista, poi, è ricalcata sulle storie di Samuele, figura sacerdotale come Giovanni, figlio di Anna, la sterile. C'è una voluta dipendenza da un documento relativo alla nascita di Giovanni Battista, ma anche il tentativo di mettere in luce la superiorità di Gesù, attribuendo a Maria un canto più tipico della figura di Elisabetta e subordinando, sin dall'incontro fra le due future mamme, il Precursore al Messia. Gli apocrifi termineranno il processo, attribuendo una nascita "sacerdotale" da una donna sterile a Maria, deducendo la di lei appartenenza alla casta dei sacerdoti dalla notizia di Luca, che la vuole cugina di Elisabetta: sua madre si chiamerà, allora, Anna. Questo gioco di trasposizioni non deve scandalizzarci, perché Luca stesso che riferisce che c'era, accanto alla comunità cristiana delle origini, una comunità di battisti seguaci di Giovanni, che non conoscevano Gesù o, almeno, non lo riconoscevano pienamente Messia. C'è un problema sotto questa parola cristiani = messianici, legata alla definizione dei primi credenti posta da Luca stesso sulla bocca degli abitanti di Antiochia. Luca fa sparire Giovanni Battista prima del battesimo di Gesù; non è lui che battezza Gesù.

Gli altri due vangeli sinottici, Matteo e Marco, sono invece più incentrati sulla Galilea.

Partiamo da questo dato che li oppone al terzo vangelo: mentre in Luca Gesù impone ai suoi discepoli di restare a Gerusalemme, in Marco e Matteo li invita ad andare in Galilea, "là mi vedranno". Soprattutto in Matteo, la grande attività di Gesù maestro si sviluppa in Galilea. In particolare, nel vangelo di Matteo si sente anche (se vogliamo fare una lettura estetica dei vangeli) la rudezza degli ebrei di Galilea, regione composta a scacchiera di città pagane e villaggi ebraici, dove il contrasto era molto sentito e la gente aveva un carattere piuttosto marcato dal punto di vista religioso. Proprio a causa di questo contrasto con una civiltà differente, Matteo accentua la ieraticità di Gesù. Dobbiamo aspettarci che, mentre nei vangeli di Giovanni e di Luca prevalga (come del resto prevale in Paolo) il mistero di Cristo, l'enigma della sua persona legato ai fatti di Gerusalemme, alla morte e resurrezione, fatti essenziali, determinanti della vita di ogni persona, nei vangeli di Marco e di Matteo abbiamo una maggiore attenzione al Gesù della storia, al Gesù con i suoi discepoli. Non dico che questo manchi in Luca o in Giovanni, ma il fatto stesso che i discorsi di Gesù vengano posti da Luca in questo lungo itinerario verso Gerusalemme, che è luogo della "perfezione", del compimento della vita del Cristo, ci indica che per lui è focale, come del resto per Paolo, il mistero finale di Gesù. Questo interesse antropologico al dramma della vita e della morte, invece, non è così evidente in Marco e non lo è neppure in Matteo.

In Marco, in particolare - il vangelo più corto, è difficile definirne una personalità se non per le assenze, piuttosto che per le presenze — Gesù è il Messia della croce, della sofferenza, che non ha nessuna arma per mostrare la sua potenza. Sin dal terzo capitolo viene deciso che Gesù deve morire; non si presenta come un saggio, in Marco non parla quasi mai, e, alla fine, quando le donne vanno al sepolcro, vedono un bambino, un giovinetto — non due uomini, due angeli, l'angelo di Matteo: figure che danno una testimonianza forte —, che non può dare una testimonianza in termini giuridici; se ne vanno, colme di paura e non dicono niente a nessuno. Poi, come tutti sappiamo, il vangelo di Marco è stato completato con una finale copiata dagli altri evangelisti, perché terminava in maniera un pò angosciante, nel buio di questo grande mistero. Ma è anche il fascino, l'estrema modernità del vangelo di Marco: Gesù è raffigurato in termini molto umani, con la descrizione delle sue emozioni, del suo modo di rapportarsi alle cose, quasi con piacere bozzettistico. Fa pensare a certe statuette ellenistiche, questa volontà di accentuare un difettuccio, se necessario; questa storia, che diventa la storia di uno di noi, che però nasconde qualcosa che bisogna leggere al di là degli avvenimenti.

Per Matteo, il Gesù della storia è il Maestro, il nuovo Mosè. Il primo vangelo costruisce l'infanzia di Gesù sulla figura di Mosè, mettendo assieme due luoghi classici da un punto di vista letterario. Il primo lo eredita dalla letteratura comune a varie civiltà del mondo mediterraneo, compresa la letteratura ellenistica: il luogo comune delle difficoltà che accompagnano la nascita di un grande uomo, superate come segno della provvidenza divina. Come Ercole che deve uccidere due serpenti appena nato e tante altre leggende analoghe, storie che riguardano in genere sovrani, o grandi condottieri, o eroi. Il secondo è quello di Gesù — Mosè: una strage di bambini, un soggiorno in Egitto, tutte cifre che indicano il compimento di un sogno. Gesù è il nuovo Mosè. Non a caso, mentre in Luca Gesù pronunzia il discorso evangelico "alzando gli occhi verso i discepoli", in un luogo pianeggiante, in Matteo Gesù sale su un monte, come Mosè era salito sul Sinai, e da lì proclama quello che conosciamo come "discorso della montagna". Quest'idea è essenziale nella struttura del vangelo di Matteo, che, prima dei racconti della passione e dopo il racconto dell'infanzia, presenta cinque blocchi di avvenimenti, seguiti da cinque blocchi di discorsi. Oggi si discute se siano veramente cinque o non piuttosto sei, ma l'impressione immediata è che siano cinque, così da riprodurre i cinque rotoli della legge, i libri del Pentateuco. In Cristo si realizza la pienezza della legge, non se ne perde neppure un iota o un apice, in una logica di continuità e superamento che ne fa la legge scritta nel cuore, promessa dai profeti: "vi hanno detto gli antichi, io vi dico". Per questo il Gesù di Matteo è ieratico, non distaccato, ma neppure mischiato alle cose di ogni giorno, si presenta come il grande Maestro, il compimento di ciò che era stato annunciato nell'Antico Testamento.

Il vangelo di Giovanni, per rimanere ancora un poco alla superficie dei vangeli, è detto "teologico", quasi che Giovanni trasfigurasse gli avvenimenti in nome di una sua visione teoretica. Però, in questo non è molto diverso dagli altri evangelisti; i vangeli sono teologia narrata, le idee vengono prima dei fatti, elaborate attraverso le prime testimonianze ad uso liturgico, i documenti di cui parleremo, la redazione finale: dobbiamo aspettarci che i vangeli diano un messaggio teologico, non che raccontino la cronaca degli avvenimenti. Questo è vero per Giovanni, come è vero per Matteo, per Luca e per Marco. Il quarto vangelo, forse, spiega meglio i suoi passaggi teologici; la redazione finale inserisce lunghe considerazioni, ampli discorsi esplicativi: pensate al grande discorso nella sinagoga di Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ma anche ad altri momenti in cui il dialogo coi personaggi, Nicodemo, la Samaritana, è come travolto da vere omelie. Di tutti, pur essendo ritenuto talvolta il più difficile, è il vangelo più didattico per quell'epoca, perché tutto viene, anche se gradualmente, svelato. L'autore, dice la finale del vangelo, ha fatto una selezione degli avvenimenti, che per lui sono segni o opere che dovrebbero indurre a credere. È la chiave del vangelo di Giovanni: si tratta di un lungo contenzioso processuale. Sin dalle prime pagine, Gesù affronta un giudizio in tribunale. Lo perderà, ma verrà il Paraclito (tradotto letteralmente: l'avvocato), lo Spirito nei tempi della Chiesa, a spiegare che egli aveva ragione.

Gesù cerca di accostare alle parole dei segni, degli indizi, e poi delle opere, fino a entrare in conflitto con chi non vuole leggere queste opere e questi segni nel loro senso profondo, non vuole capire che in lui è presente la potenza di Dio. Giovanni è lo scritto che mostra più forte coscienza della presenza di Dio in Cristo, Il rifiuto decisivo, viene detto sin dal prologo e ribadito al capitolo 11, consiste nel rifiutare la vita: si decide di ucciderlo nel momento in cui resuscita Lazzaro; ufficialmente, per paura della sua popolarità, di fatto a causa di un rifiuto profondo della vita in quanto tale e delle sue risorse, delle sue possibilità. Con essa, del suo Autore.

Così appaiono, guardati in superficie ed in maniera molto sommaria, i quattro vangeli. Come si sono formati?

Abbiamo una testimonianza antica, attribuita a Papìa di Gerapoli (II sec.), che narra di tradizioni degli anziani che lo precedono: dice che Marco avrebbe raccolto senza ordine le memorie di Pietro; Matteo avrebbe scritto "i detti" in ebraico (o in aramaico), che furono poi tradotti in greco. Di Giovanni e Luca non parla.

Sono dati importanti perché ci mostrano come un lettore antico cercasse di spiegarsi il fenomeno delle somiglianze e delle differenze fra i vangeli col riferimento agli apostoli, ai testimoni diretti. Papìa attribuisce a Pietro le memorie raccolte da Marco, il ché ha dato origine alla leggenda di Marco segretario di Pietro a Roma. Nel vangelo di Marco abbiamo, in effetti, dei riscontri di ambientazione romana. Traduce il valore delle monete, per esempio: quando si usano monete che erano in corso a Gerusalemme, dice ai romani che corrispondono a due quadrati. È ricco di espressioni di origine latina o correnti nel linguaggio dell'impero. Tuttavia, Papìa non parla di una dipendenza dell'uno dall'altro. Se leggiamo Papìa pensando che stia parlando dei vangeli che abbiamo in mano oggi, non ne evinciamo che Matteo dipenda da Marco o Marco da Matteo. Tutti e due dipenderebbero dalle memorie degli apostoli.

Leggendo però i vangeli, e andando nel loro tessuto, ci si rende conto che esistono delle dipendenze. Nell'ipotesi che Luca abbia potuto leggere Matteo e Marco, a lui precedenti, si sono costruiti due schemi:

Luca, che si porrebbe al termine del processo, avrebbe letto, secondo il primo schema, Matteo e, in seconda battuta (la doppia linea indica una dipendenza più diretta), il vangelo di Marco, il quale, a sua volta, sarebbe una forma raccorciata di Matteo, probabilmente ad uso dell'ambiente romano.

Per la seconda ipotesi, che adotta lo stesso schema di base e che sembra più probabile, Marco sarebbe stato la fonte di Luca, il quale avrebbe inserito nel tessuto del suo vangelo, sulla struttura narrativa marciana, altri elementi provenienti in buona parte dal vangelo di Matteo.

La terza ipotesi: Matteo influenza Luca, Marco unisce tutti e due, soprattutto Matteo, riassumendoli, secondo lo schema:

Questi primi tre schemi, che vanno molto di moda ancora oggi presso autori (inutile dire che sono di area anglosassone) che accusano altri studiosi di complicare inutilmente i problemi, cercano di spiegare essenzialmente due fenomeni.

Il primo è che Matteo e Luca sono molto più lunghi di Marco, che si riduce a sedici capitoli. Confrontando i due vangeli lunghi, Matteo e Luca, con quello di Marco, ci si accorge che la differenza di lunghezza (sia Matteo che Luca superano abbondantemente i venti capitoli: Matteo arriva a ventotto, Luca ventiquattro) è data in buona parte a) dai racconti sull'infanzia, che possiamo mettere da parte perché sono un fenomeno letterario non comparabile con Marco, che non ne presenta, e b) da discorsi (insegnamenti, parabole, polemiche). Il vangelo di Marco afferma spesso "Gesù insegnava, Gesù diceva loro", ma non dice cosa insegnasse.

L'altro fenomeno è che, in linea di principio, si può pensare che Luca dipenda da Matteo o viceversa, ma, sul campo, leggendo diverse pericopi, diversi brani, talvolta si evidenzia che Luca dipende da Matteo, cioè amplia, corregge o risistema un testo di Matteo, talvolta, invece, si nota che è Matteo che riprende Luca. Ma non basta questo fenomeno: c'è il mistero di Marco. Di Marco, si dice, sin dall'antichità, che riassume gli altri due o uno degli altri due. Il problema è che invece talvolta Marco presenta appaiati dei tratti letterari dispersi in Matteo e in Luca; anche elementi insignificanti, frasi tipo "fattasi sera, alla fine di quel giorno", uniscono il "fattasi sera" di un evangelista e "alla fine di quel giorno" di un'altro. Per questo ci si chiede se riassume un vangelo, se ne riassume due, e perché uno scrittore che dovrebbe riassumere va a prendere un pezzo da una parte e un pezzo dall'altra, creando un testo lungo. Per di più, Marco, pur essendo così breve, presenta dei doppioni, il più noto è la doppia moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Gli schemi semplici possono servire ad accontentare sul momento le curiosità del grosso pubblico, ma non resistono al confronto con la realtà dei vangeli. Sono stati pertanto elaborati schemi più complessi; possiamo considerne alcuni.

Accettiamo, cosa che ormai è ammessa quasi da tutti, l'esistenza di due fonti originali: una che troviamo riprodotta grosso modo in Marco, un racconto della vita di Gesù, l'ossatura dei fatti, l'altra che troviamo soprattutto in Matteo e Luca, ovvero una silloge dei detti di Gesù, raccolti come anticamente si raccoglievano i detti di qualunque filosofo o di qualunque saggio. In Matteo è presente coi suoi cinque discorsi organizzati per temi: discorso evangelico, discorso apostolico, discorso comunitario ecc., Luca, invece, disperde questo materiale ed aggiunge molte parabole. In Marco abbiamo un solo discorso unitario, il discorso escatologico, sulla fine dei tempi, che troviamo disperso in Luca e un pò più coerente in Matteo.

Secondo questa teoria, elaborata in ambito francese (se fosse stato tedesco, al posto della S, da source = sorgente, ci sarebbe una Q, da Quelle), S (Q) sarebbe la fonte dei discorsi, M o un proto-Marco (influenzato da Pietro) o, per altri, un proto-Matteo, la fonte delle sezioni narrative. Seguendo Papìa, che afferma che Matteo avrebbe trascritto in aramaico i detti (logia) del Signore e che Pietro avrebbe lasciato delle testimonianze raccolte da Marco, si elabora lo schema sopra proposto. Che siano o no quelle di Pietro, vi sarebbero state testimonianze sulla vita di Gesù nella lingua corrente, che usava Gesù con i suoi discepoli. Questa possibile pre-stesura in aramaico la possiamo ipotizzare anche per la Q, cioè per la source dei discorsi. Quindi M ed S sarebbero rispettivamente gli originali di un racconto della vita di Gesù e di una silloge di loghia, di frasi. Entrambi i documenti avrebbero subìto a un certo punto una traduzione in greco: Mg ed Sg. La traduzione in greco Mg, il racconto dei fatti, avrebbe dato origine direttamente a Marco. Matteo e Luca si sarebbero basati su questa traduzione in greco dall'aramaico di un testo antico, per comporre i loro vangeli sotto l'influsso di Sg. Possiamo subito aggiungere che tracce di S o di Q ed anche di racconti circa la vita di Gesù si trovano al di fuori dei vangeli. Abbiamo, circa alcuni dei vangeli chiamati apocrifi, il sospetto che trasmettano alcuni detti autentici di Gesù, inseriti in un marasma di altri meno attribuibili al Signore, perché più tardivi o influenzati da un'ideologia posteriore. In altri casi abbiamo, nei primi Padri della Chiesa ma anche in san Paolo, logia attribuiti a Gesù che non troviamo nei vangeli.

 

to dall'Antico Testamento, e, viceversa, il racconto 2 sia influenzato più da una mentalità di tipo greco-ellenistico. Da qui l'ultimo schema, col quale concludo questa aridissima lezione:

 

Ipotizziamo un racconto degli avvenimenti della vita di Gesù scritto non necessariamente in aramaico o in ebraico, ma con una forte presenza della mentalità semitica e delle figure dell'Antico Testamento, le quali nei brani che si possono far risalire a questo documento, non sono citate esplicitamente: sono allusioni, poiché si parlava a gente che le conosceva, forse da Testimonia, catene di citazioni utili per la catechesi o la polemica intragiudaica. Ipotizziamo che da questo documento A sia stato tratto, riscrivendolo, un documento B, il quale non sarebbe la traduzione dall'ebraico al greco, ma una reinterpretazione del documento A in funzione della mentalità e degli atteggiamenti delle comunità di origine greco ellenistica. In questo caso la Scrittura bisogna citarla esplicitamente, bisogna spiegare certi usi tipici del mondo ebraico, oppure tradurre le immagini o i simboli, per far capire il messaggio. Queste due fonti, in un tempo abbastanza remoto, sarebbero state fuse fra loro, per completarle, creando i doppioni di cui abbiamo detto; e sarebbero state fuse in modo tale da farci ritrovare in Matteo e Marco un influsso tanto di B che di A, mentre in Luca, che pure ha presente sia A che B, è il secondo che prevale. Probabilmente la riscrittura B del documento A è avvenuta ad opera di una comunità, e quindi è stata messa in circolazione in parallelo con il documento A, finché non ci si è accorti che c'erano delle differenze e si è cercato di uniformare il più possibile i due documenti. Quello che nello schema chiamiamo Matteo intermedio, in questa ipotesi, sarebbe una prima fusione di questi due documenti, con ancora forte prevalenza del documento A; mentre Marco risente maggiormente del documento B, ma tiene degli elementi di A. Luca è il più puro, dipende molto da B. Infatti, alcuni tratti che troviamo doppi negli altri evangelisti, si trovano semplici in Luca, sempre o quasi nella lettura di tipo B, oppure sdoppiati, per chiarezza, come nel caso delle due coppe dell'Ultima Cena. Questo vangelo, che chiamiamo proto Luca risente di C e Bt, come del resto Giovanni in una sua prima stesura. Matteo e Luca, secondo le ricerche precedenti, dipendono da Q per i discorsi. Quest'ultimo schema, un pò più complesso, aggiunge in fondo solo un dato: A e B e C, tre documenti, che son già dei vangeli più o meno completi, salvo che C ha solo il racconto della Passione, integrano la fonte della narrazione. L'ultima fase, quella in cui gli incroci incominciano ad intensificarsi, deve rendere conto di alcuni fenomeni di interdipendenza fra i vangeli sinottici, dovuta a quel processo che a un certo punto si è deciso di interrompere, e che è continuato ma non ha più influito sui vangeli canonici: il processo, naturalissimo sia per gli scribi che per i catechisti che usavano i vangeli, di armonizzazione di un vangelo sugli altri. Se non si fosse deciso di tenere questi quattro venerabili libretti, a noi sarebbe forse arrivato un vangelo solo, coerentissimo nella sua storia, ma probabilmente incredibile dall'inizio alla fine. È molto più credibile questo intersecarsi delle diverse testimonianze, perché mostra un lavorio e un processo di formazione logico; possiamo ricostruirlo. Giovanni si sa che nell'ultima fase redazionale dipende da Matteo.

Ho cercato di farvi una breve storia dell'interpretazione, perché le teorie sono tante. Evidentemente, per la fede non è importantissimo sapere quale di questi schemi è quello esatto. Si tratta di vedere come i vangeli nascono e si sviluppano per narrare una teologia in cui le idee sono più importanti dei fatti.

Poiché sono le idee, veicolate dai simboli, dai racconti e dalle parole, che importano più che la cronaca, è abbastanza ovvio che si cercasse già dall'antichità di renderle perspicue per gente che non era di cultura biblico ebraica.

Nel gioco di intrecci che si è formato nel tempo, e che è stato ad un dato momento bloccato per intervento autoritativo, si sono prodotti i vangeli che abbiamo oggi, ma continuando nelle tradizioni armonizzatrici fino ad Agostino, al Diatessaron e al Medioevo.

Talvolta queste armonie, anche quelle medievali, riportano testi, più antichi dei vangeli canonici, che hanno continuato a circolare indipendenti.

 

Dibattito

Padre, esprimo anzitutto la mia piena soddisfazione e ringrazio; non voglio mettere in dubbio le conclusioni della storia delle forme, conclusioni ottime di cui già siamo venuti a conoscenza. Vorrei chiedere però, circa la duplicazione di certi episodi e direi soprattutto di certi detti, di certi insegnamenti di Gesù, non è possibile che, essendo tre anni, due anni, forse meno, la vita pubblica di Gesù, si sia ripetuta la necessità di ritornare sugli stessi argomenti, di ripetere certi fatti. La moltiplicazione dei pani è troppo, diciamo, fotocopia l'una dell'altra, dire che sono due moltiplicazioni … ma potrebbe essere possibile che Gesù trovandosi in simili situazioni, una volta da sette pani e due pesci, un'altra volta da due pani … avesse ripetuto il miracolo; però certe parabole, certi discorsi, per esempio le mine e i talenti, non potrebbero essere due ripetizioni fatte da Gesù in forma diversa. Il Padre nostro l'avrà insegnato più di una volta; quindi diciamo, andando al fatto storico, o la cronaca, chiedo, uno è obbligato a dire no, quello è frutto di una rielaborazione, o può dire forse sono due racconti che si riferiscono a due episodi diversi?

Distinguerei innanzitutto fra discorsi e fatti, e poi fra fatto e narrazione: abbiamo dei discorsi doppi, due Beatitudini, due Padre Nostro, molte delle pericopi importanti sono doppie. Non escluderei che sin dalle origini immediate ci sia stato un tentativo di adeguare il messaggio all'uditorio. La polytropia, il sapersi adattare alle diverse situazioni, era una delle virtù degli oratori e dei maestri: saper trovare gli argomenti giusti a seconda dell'uditorio che si ha di fronte; quindi, come metodo in sé, potremmo anche attribuirlo a Gesù. È diverso per la narrazione dei fatti.

Il fatto che Gesù si sia sentito obbligato a ripetere due o tre volte gli stessi gesti, mi sembra strano, soprattutto quando c'è divergenza tra i vangeli su questo punto. Qui, chi fa problema è Luca, perché certe volte semplifica. È più semplice credere che Luca riporti un solo racconto piuttosto che ritenere che raccorci la narrazione dei fatti, soprattutto se, come nel racconto dell'agonia al Getzemani, siamo nello stesso ambito temporale, in un momento unico della vita di Gesù. Che poi, in linea di principio, Gesù possa avere fatto due volte le stesse cose, perché no?

Per i detti c'è un altro problema, che è quello dell'adeguare non solo al diverso uditorio, ma talvolta alle diverse situazioni, lo stesso detto, il ché conduce a far dire a due detti di Gesù cose esattamente contrarie. Abbiamo il caso clamoroso di due pronunciamenti contradditori, attribuiti entrambi al Signore: "chi non è con me, è contro di me", "chi non è contro di me, è con me". Non si tratta di sensibilità greca o semitica, ma di sistemare la stessa frase di Gesù in contesti diversi e con un significato diverso. Il raddoppiamento di cui parliamo non riguarda singoli avvenimenti, ma due racconti filati, poiché il fenomeno è sistematico. Per riassumere: può darsi che il metodo lo abbia insegnato Gesù, ma lo sviluppo, secondo me, viene da chi ha steso i documenti. Non è cronaca, è teologia raccontata. Tenga presente che il concetto di storia documentaria, lo dico con orgoglio in quanto modenese, non esiste prima dei tempi di Ludovico Antonio Muratori. Tucidide aveva avuto già un'idea abbastanza chiara della storiografia, ma egli stesso testimonia che questa ai tempi suoi era più retorica celebrativa (agone letterario) che cronaca. Egli vi aggiunge la ricerca delle cause, ma non il metodo documentario. Così fu per lungo tempo.

Vorrei sapere se, in questo contesto di ricostruzione delle fonti , ha un senso parlare della cronologia dei vangeli, cioè: ho questo vago ricordo per cui nella letteratura cristiana si inizia dallo studio del vangeli e si dice che Marco è il più antico, Giovanni il più recente, e quindi come si pongono cronologicamente i documenti o i vangeli?

Sono due livelli diversi. Se ipotizzo l'esistenza di documenti previ, procedo attraverso tre tappe: 1) il documento che l'evangelista ha usato; 2) il vangelo da lui redatto; 3) l'armonizzazione di questo vangelo sugli altri. Ha poco senso chiedersi l'età del vangelo in quanto tale. La più facile da evidenziare è la fase intermedia: la redazione del vangelo prima delle armonizzazioni. Si può dire che Marco è il più antico, per un motivo abbastanza semplice: che la redazione finale non parla della caduta di Gerusalemme. Quindi riprodurrebbe Q in una forma più pura. Forse Q aveva il discorso escatologico in una stesura precedente al 70 d.C.; Marco la eredita così com'era. Per quel poco che ne possiamo sapere, poiché potrebbe averla usata nel 71, ma non aver ritenuto di parlare della caduta del tempio.

Stabilire una cronologia per gli altri è più difficile. Quando Luca parla dei documenti che sta usando, sta parlando di vangeli già esistenti, come noi li ipotizziamo oggi? Nell'ultimo schema che vi ho proposto, ho messo Marco intermedio fra parentesi, perché quando esso è stato elaborato dai padri Benoît e Boismard si credeva ancora in un Marco intermedio. Oggi si tende a farlo coincidere con la B; evidentemente, un proto Marco che coincidesse con la B sarebbe molto antico. Tuttavia, su Marco, redazione finale, ha influito anche A. Son tre livelli diversi: il documento, la redazione, il lavoro di limatura degli spigoli.

Lei ha concluso la sua lezione dicendo che c'era una scarsa conoscenza della Bibbia. La Bibbia ebraica mette i Profeti a metà, la Bibbia cristiana li mette alla fine. Quand'è che cominciano a lavorare sul testo ebraico? Non c'è già con Luca e Matteo un interesse verso le sacre Scritture ebraiche?

Dicevo che il documento B fu redatto per tradurre, per gente che conosceva poco l'Antico Testamento, dei concetti che nel documento A sono espressi nei canoni della cultura semitica, con simbologie comuni all'Antico Testamento o ad altra letteratura orientale.

Non è che non ci sia negli evangelisti un interesse per la Sacra Scrittura: c'è, e molto forte. Però si dovevano trasporre, per gente che invece non aveva l'abitudine di leggere l'Antico Testamento, le stesse idee nel loro contesto culturale. Abbiamo due fenomeni analoghi nelle lettere di Paolo, ve li racconto, perché son divertenti. Uno è lo shock di cui ci testimoniano certi capitoli della prima lettera ai Corinti, dove san Paolo litiga con la comunità, perché questi si son visti arrivare un ebreo che ha detto loro: "non c'è più la legge di Mosè". Erano corinti, greci, siriani, marinai o mercanti dell'area mediterranea: che fosse o meno abolita la legge di Mosè non è che li commuovesse profondamente, non erano ebrei. Ma si lasciarono convincere dall'annuncio della resurrezione, che li interessava in quanto esseri umani. Poi, dopo aver proclamato: "non c'è più la legge di Mosè, Cristo è risorto, tutti risorgeremo", Paolo ordina "donne, mettetevi il velo". Queste replicano, "no, scusa, c'è qualcosa che non funziona: prima dici che non c'è più la legge di Mosè, poi imponi a noi una norma della legge di Mosè". Questo è un caso, divertente, di inculturazione, testimone della difficoltà che ebbero anche i primi testimoni del vangelo a fare un salto dalla loro alla mentalità a quella di coloro a cui parlano. Un altro caso classico è proprio l'idea di resurrezione. Paolo è di formazione farisaica e va dire ai soliti corinti: "risorgeremo tutti col nostro corpo". Come gli ateniesi, così i corinti, da buoni greci, gli replicano: "risorgere col corpo, ma che schifezza! Il corpo è una prigione, invecchia. Risorgiamo con l'anima, anzi: siamo già risorti". Paolo si vede costretto ad aggiustare, con fatica, il tiro e a parlare di una corporeità astrale o del nuovo corpo come di una tenda.

Sempre negli scritti di Paolo, le grandi lettere dottrinali, Romani e Galati, usano a man bassa l'Antico Testamento; si tratta del problema circoncisione, fede, opere. Paolo agisce da esegeta: legge un testo biblico, lo commenta, tira le sue conclusioni. In altre lettere Paolo, o chi per lui, non usa più l'Antico Testamento, come documento di base, ma gli inni della comunità. Non poteva citare l'Antico testamento come testo autorevole, ed allora richiama la canzoncina che hanno imparato in parrocchia. Quando Paolo afferma: "vi trasmetto quel che io stesso ho ricevuto", come fa citando le parole dell'Eucarestia secondo un testo simile a quello di Luca o un Credo pasquale che ritroviamo simile in Atti, toccate con mano un documento della Chiesa primitiva, forse della comunità di Antiochia.

Anche nella stesura dei vangeli si dovette tener conto delle diverse mentalità.