Padre Enrico Deidda S.J.
Progetti e Sogni

 

“La centralità della persona umana nella Bibbia e nel Magistero”

Il testo integrale dell’intervento di Padre Enrico Deidda, in occasione della terza tappa di riflessione verso la Giornata nazionale dell’Impegno e della Solidarietà

 

“Il tema del mio intervento è mettere a fuoco come la persona umana sia al centro della Sacra Scrittura e del Magistero della Chiesa. Mi piace aprire il discorso con la parola di un autore del secolo scorso, Hermann Hesse, tedesco, premio Nobel della letteratura, il quale, formatosi nei primi anni della sua adolescenza in India, perché nipote di un pastore protestante tedesco, missionario in India, assorbì molto dell’attenzione verso l’interiorità della persona umana.

In uno dei suoi romanzi scrive: “Certo che cosa sia un uomo realmente vivo si sa oggi meno che mai e perciò si ammazzano gli uomini in grandi quantità, mentre ognuno di essi è un tentativo prezioso e unico della natura. Se non fossimo qualcosa di più di uomini unici, se si potesse veramente togliere di mezzo ognuno di noi con una pallottola, non ci sarebbe ragione di raccontare storie. Ogni uomo però non è soltanto se stesso, ma anche il punto unico, particolarissimo, dove i fenomeni del mondo si incrociano una volta sola, senza ripetizione. Perciò, la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina; perciò ogni uomo fintanto che vive e in qualche modo adempie il volere della natura, è meraviglioso e degno di ogni attenzione. In ognuno lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore. Oggi pochi sanno che cosa sia l’uomo. Molti lo sentono e perciò muoiono con maggiore facilità, come io morirò più facilmente quando avrò finito di scrivere questa storia”. Mi pare che venga inquadrata bene l’unicità dell’uomo, l’irripetibilità di ogni essere umano e, nello stesso tempo, il suo essere messo come crocevia e punto di incontro: non soltanto noi, tanti “sentierini” paralleli che non si incontrano pur nella meraviglia di ognuno di noi, ma incroci, intersezioni, in cui ogni uomo è importante perché può essere un crocevia positivo di incontro, e non una diga di sbarramento. E allora, posto questo inizio, che penso già abbia dato un’idea della dimensione umana della persona, faccio qualche accenno, prima all’Antico Testamento, poi al Nuovo. Tutti noi abbiamo presente il Salmo Ottavo, quello in cui si dice, a un certo punto, “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è l’uomo, perché ti ricordi di lui”. C’è un grido di meraviglia, perché l’uomo, nonostante la sua insignificante statura di fronte alle cose grandi della natura, le montagne, le stelle, il mare, seppur con meraviglia è punto di riferimento, punto terminale dell’attenzione di Dio. “Che cosa è l’uomo, perché ti ricordi di lui. L’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e d’onore lo hai coronato”. Tra l’altro, alcuni biblisti, tra cui il Cardinal Martini, ritengono che questo Salmo sia stato scritto e ideato da Davide, che, inseguito dal Re Saul, si nasconde nella notte in una grotta e poi, quando ormai la notte è calata, esce per respirare un po’, vede questa stupenda cupola blu, trapunta di  stelle che, nel deserto, sono così luminose che sembrano quasi trafiggere gli occhi, si sente come calmato, tranquillizzato dall’ansia della fuga e dal suo cuore, dalla sua mente esce questo grido di meraviglia davanti alla dignità dell’uomo, all’attenzione con cui Dio guarda l’uomo.

Vorrei ora leggere un passo brevissimo, un versetto, tratto dal Libro dei numeri, poco conosciuto. Qui non si parla dell’uomo singolo, ma del popolo di Israele. Da notare la precisione con cui l’autore di questo libro descrive l’attenzione di Dio verso il popolo ebraico che cammina nel deserto. “Mosè disse al Signore: ma gli Egiziani hanno saputo che tu hai fatto uscire questo popolo con la tua potenza e lo hanno detto agli abitanti di questo paese. Essi hanno udito che tu, Signore, sei in mezzo a questo popolo e ti mostri loro faccia a faccia; che la tua nube si ferma sopra di loro e che cammini davanti a loro di giorno, in una colonna di nube, e di notte in una colonna di fuoco”.

Tu sei in mezzo a questo popolo”: non è un Dio che guarda dal suo balcone dorato o che guarda da lontano, ma Dio, per il popolo ebraico, se c’è, è in mezzo. Tanto è vero che nel momento delle acque amare, la ribellione del popolo si concretizza con queste parole: “Ma Dio, Jahvè, è in mezzo a noi, sì o no?”. Perché se Dio c’è, è in mezzo; non può essere uno che guarda da lontano, uno che guarda dall’alto. Questa è una caratteristica che continuamente viene riferita nella Scrittura; quindi Dio è in mezzo, parla faccia a faccia, e poi ti protegge durante il giorno con una colonna di nubi e ti guida, ti protegge dalla calura del deserto, dal sole che batte; di notte continua a guidarti con una colonna di fuoco, perché il Signore non ha dei momenti in cui lavora e dei momenti in cui si riposa: il Signore per l’uomo è sempre operoso, è sempre attento, è sempre in mezzo.

E, d’altra parte, questo stesso pensiero è ripreso anche da San Paolo, quando nella piazza di Atene parlando ai sapienti dice: “In Dio noi ci muoviamo, viviamo e siamo”. Siamo attorniati, circondati, siamo teneramente e rispettosamente come ricoperti dalla presenza di Dio. Non solo l’umanità, il popolo di Israele, ma anche il singolo uomo è termine dell’amore immotivato, gratuito di Dio: per esempio, Abramo viene chiamato “Abramo, Abramo”.

Dio desidera anche che l’uomo sia protagonista del suo destino. In Ezechiele, al capitolo 18, al di là di una mentalità corrente per cui la persona era fortemente condizionata dal bene e dal male dei suoi genitori, dei suoi avi, del suo popolo, si dice che ciascuno è artefice del suo destino. Ezechiele, capitolo 18, 20-24: interessante come il Signore è rispettoso e non dà mai giudizi che non lasciano la possibilità di un cambiamento finché siamo in questa vita. “Colui che ha peccato, e non altri, deve morire. Il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia, e al malvagio la sua malvagità. Ma se il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha commesso e osserva gli ultimi decreti e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà non morirà. Nessuna delle colpe commesse sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticata”. Ciascuno è artefice del proprio destino, con l’aiuto del Signore, non è dipendente dal male che quelli prima di lui hanno fatto. “Forse che io ho piacere della morte del malvagio? O non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? Ma se il giusto si allontana dalla giustizia e commette l’iniquità, chi agisce secondo tutti gli abomini che l’empio commette potrà egli vivere? Tutte le opere giuste da lui fatte saranno dimenticate, a causa della prevaricazione in cui è caduto e del peccato che ha commesso egli morirà”. Quindi, la nostra vita è un dinamismo continuo, è una continua spinta in avanti, e ciascuno di noi può decidere sempre con l’aiuto del Signore di ricostruire la propria vita.

Non soltanto l’uomo è artefice del suo destino, ma è capace di vivere l’amicizia con Dio. Capitolo 33 dell’Esodo: “Dio parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il suo amico”. Siamo quasi alla conclusione del libro dell’Esodo; ormai tra Dio e Mosè si era stabilita una familiarità tale per cui Mosè osava manifestare a Dio i suoi desideri, qualsiasi stato d’animo che provasse e vivesse nel proprio cuore. Tra l’altro, Dio parlava con Mosè, la lettura più esatta sarebbe “bocca a bocca”. E il termine adorazione, che noi utilizziamo spesso e che viviamo nei momenti in cui siamo davanti al Signore, sembra proprio che venga dal latino “ad os”: essere davanti alla bocca.

Vediamo ora qualcosa del Nuovo testamento. Innanzitutto, questa stima grande che mostra Dio facendo incarnare il proprio figlio, il Verbo unigenito. Al capitolo primo di Giovanni si dice che “La parola venne fra la sua gente”. E poi, ancora, “Venne ad abitare in mezzo a noi”, non si è preso una tenda appartata lontano, per vivere la sua tranquillità e ogni tanto dare uno sguardo a noi, ma è veramente uno che vive con noi. Abbiamo poi, nel capitolo quinto di San Marco, un episodio noto per la sua singolarità: quando Gesù libera l’indemoniato e i demoni che erano dentro quest’uomo vanno nei porci, un branco di tremila porci viene perduto perché si butta in mare. Qual è il significato di questo miracolo così strano? Credo che il significato sia proprio questo: l’uomo è preferito a qualsiasi ricchezza; la salvezza del singolo uomo vale di più della ricchezza di un intero paese.

Ancora, Gesù risorto si presenta nel cenacolo e per due volte, viene sottolineato che “si fermò in mezzo ai suoi”: Dio è colui che sta in mezzo, il Risorto è in mezzo a noi. La caratteristica di Dio è di essere “L’Emmanuele”, Dio con noi; il Dio che sta in mezzo alle vicende umane; il Dio che vive le situazioni di gioia, di difficoltà, di sofferenza, dall’interno dell’uomo. Ed è interessante come questo “in mezzo”, per due volte Gesù lo attribuisce alle persone più deboli. Nell’episodio dell’uomo dalla mano arida – siamo all’inizio del capitolo terzo di Marco – quando c’è quest’uomo con la mano secca, ormai una mano paralizzata, Gesù, figlio di Dio, si rivolge agli astanti  (siamo nella sinagoga) e chiede: “E’ lecito o no guarire un uomo nel giorno di sabato?”. E loro tacevano. E Gesù, dopo aver osservato, “Se avete un bue o un asino che cade nel pozzo, voi anche nel giorno di sabato lo tirate fuori”, poi, guardandoli tutti intorno con indignazione, disse all’uomo con la mano arida: mettiti al centro, in mezzo, quasi a dire: supera il tuo stato di inferiorità, che ha provocato nella tua vita quella vergogna di presentarti in pubblico, mettiti lì al centro, in mezzo, al posto di Dio. E così pure, una seconda volta, Gesù mette al centro un bambino, dà il posto di Dio a un debole, un disabile e a un bambino e noi sappiamo quanto i bambini siano spesso sofferenti. Mentre gli apostoli discutevano tra di loro chi era il più grande, Lui mette in mezzo questo bambino e dice: “Se non mi vedrete come uno di questi bambini, non entrerete nel Regno dei cieli” (Marco, 9, 36).

E poi, voglio concludere questa breve carrellata sull’Antico e Nuovo testamento: noi sappiamo che San Leone Magno diceva che “La gloria di Dio è l’uomo vivente”, l’uomo nella pienezza della sua capacità di manifestare se stesso, le sue capacità.

Nell’episodio narrato nell’undicesimo capitolo di Giovanni, Gesù, che si trova a due giorni di cammino da Gerusalemme, viene raggiunto dal messaggio delle due sorelle Marta e Maria che lo informano “Il tuo amico è malato”: bellissima questa espressione, non dicono “vieni subito, fai, guariscilo”, ma lo informano perché hanno fiducia, sanno che Gesù farà quello che deve fare, quello che sarà possibile. E quando Gesù si vuole mettere in cammino, per andare a Betania, (che è a mezz’ora di cammino a piedi da Gerusalemme), gli apostoli cercano di fermarlo, dicono “solo pochi giorni fa cercavano di lapidarti e adesso tu torni proprio lì”. Che Gesù fosse consapevole del rischio a cui andava incontro è testimoniato da Tommaso che - quando vede che gli apostoli non riescono a bloccarlo - dice: “Andiamo anche noi e moriamo con lui”. Di fatto, questa andata di Gesù a Betania, con la conseguente risurrezione di Lazzaro, sarà la goccia che farà scatenare definitivamente il complotto contro Gesù e provocherà il suo arresto. Quando Gesù arriva, gli va incontro prima Marta, poi Maria e chiede loro “accompagnatemi” alla tomba dove avete sepolto Lazzaro e Marta gli risponde. “Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i giudei che erano venuti con lei si commosse profondamente, si turbò e disse: “dove l’avete posto?”. Dissero: “Signore, vieni a vedere”. Ed ecco, in successione tre stupende parole di libertà: “Togliete la pietra”, come dire: c’è una pietra che copre il cuore di ciascuno di noi, la pietra della sfiducia, della paura, della presunzione; togliete quella pietra che impedisce di essere pienamente se stessi. La seconda parola è “Lazzaro, vieni fuori”; come se Gesù chiamasse ciascuno di noi per nome, vieni fuori, sii te stesso, usa i tuoi talenti, mettili in gioco, non chiuderti, non lasciarti prendere dalla paura, dal timore del giudizio degli altri. E poi, la terza parola stupenda: “Scioglietelo e lasciatelo andare”. Mi sarei aspettato che Gesù dicesse: portatelo da me, invece il Signore non chiede niente per se stesso, desidera soltanto la piena espansione dell’uomo, nel senso giusto.

E adesso, brevemente, guardiamo il Magistero della Chiesa. Mi rifaccio soprattutto a due documenti di Giovanni Paolo II e a un breve passaggio di Benedetto XVI. I documenti di Giovanni Paolo II sono la Redemptor hominis e poi la Centesimus annus, il centesimo anniversario della promulgazione della Rerum Novarum, l’enciclica di Papa leone XIII sui problemi sociali.

Al numero 10 della Redemptor hominis, il papa dà una definizione del Vangelo: “Quel profondo stupore riguardo al valore e alla dignità dell’uomo si chiama Vangelo”, cioè il Vangelo è il libro dello stupore davanti al valore e alla dignità umana: non è bello? Non è grande questo? Dovrebbe farci venire la pelle d’oca. Il Vangelo certamente narra le vicende di Gesù, ma se lo guardiamo con profondità, attraverso le vicende di Gesù, mette in rilievo la grandezza dell’uomo, il valore e la dignità della persona.

Leggo il numero 14 della Redemptor hominis, che è intitolato, “Tutte le vie della Chiesa conducono all’uomo”. Innanzitutto, non all’uomo in astratto, ma ogni uomo, in tutta la sua irripetibile realtà dell’essere, dell’agire, dell’intelletto, della volontà, della coscienza e del cuore; l’uomo nella sua singolare realtà ha una propria storia e una sua vita; e soprattutto – aggiunge il Papa – ha una propria storia dell’anima. L’uomo, così com’è, nella sua irripetibilità, ciascuno di noi, ma senza trascurare la storia, non soltanto delle vicende quotidiane che viviamo, dei successi che raggiungiamo, degli insuccessi che purtroppo dobbiamo registrare, ma soprattutto la storia del nostro cammino interiore. L’uomo nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale e, insieme, del suo essere comunitario e sociale. Quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione, L’uomo è la prima e fondamentale via della Chiesa. Quindi, l’uomo concreto, ciascuno di noi, l’uomo nel suo essere comunitario e sociale, come in Hermann Hesse: ciascuno di noi non è soltanto se stesso, ma anche il punto unico, particolarissimo, dove i fenomeni del mondo si incrociano una volta sola, senza ripetizione. Questo è anche impegnativo per noi: dobbiamo farci trovare pronti quando i fenomeni si incrociano nella nostra vita, quando riceviamo una notizia da comunicare all’altro, quando abbiamo la possibilità di riportare pace fra due amici, quando possiamo aiutare un fratello che è in difficoltà. Quindi, l’uomo concreto, l’uomo nel suo essere comunitario e sociale, l’uomo nelle sue contraddizioni; l’uomo che ha delle aspirazioni grandissime e che pure spesso è debole e peccatore: è quest’uomo che è la via della Chiesa, non soltanto l’uomo quando esprime al meglio se stesso, ma anche quando esprime la sua debolezza, manifesta il suo essere peccatore, l’uomo nella sua contraddizione, quindi ogni uomo senza eccezione alcuna. Cristo è in qualche modo un mito, anche quando l’uomo non è di ciò consapevole, cioè anche quando uno non lo conosce. Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione. E poi, Giovanni Paolo II dice che la Chiesa deve vegliare e difendere l’uomo. Dice così “deve essere la Chiesa consapevole di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché la vita umana divenga sempre più umana, perché tutto ciò che compone questa vita risponda alla vera dignità dell’uomo”. Poi, nella Centesimus Annus  Giovanni Paolo II ribadisce l’affermazione della Redemptor hominis (quest’ultima è il primo documento di Giovanni Paolo II, è la prima enciclica, scritta alcuni mesi dopo l’elezione al Soglio pontificio e quindi è un po’ il discorso programmatico, quello che fa capire cosa gli stia più a cuore e cosa intenda soprattutto realizzare nel suo pontificato), e nell’ultimo capitoloche intitola “L’uomo è la via della Chiesa”, riprende quanto già  ribadito (cap.14 Redemptor hominis), anzi lo rinforza, perché dice non più soltanto “la via prima e fondamentale”, ma “unico scopo della Chiesa è stata la cura e la responsabilità per l’uomo a lei  affidato da Cristo stesso”.

Per questo uomo che, come il Concilio vaticano II ricorda, è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa e per cui Dio ha il suo progetto, cioè la partecipazione all’eterna salvezza  - non si tratta, ripete, dell’uomo astratto ma dell’uomo reale, concreto, di ciascun uomo -,  per lui, appunto, il Cristo ha fatto propria la vita dell’uomo, cioè si è incarnato, è diventato uno di noi e guida la vita umana. E precedentemente, nella Centesimus annus, aveva individuato alcuni aspetti nodali dei compiti che la Chiesa ha nei riguardi dell’uomo; cosa significa che l’uomo è la via fondamentale, unica della Chiesa? Lo spiega con tre indicazioni: innanzitutto, la Chiesa insegna, indica la via delle riforme perché la società e lo Stato assumano la responsabilità di difendere il lavoratore contro l’incubo della disoccupazione (Centesimus annus, numero 15); poi dice che la Chiesa si deve impegnare e si impegna a sostenere i diritti della coscienza umana contro le forme di totalitarismo, autoritarismo e fondamentalismo religioso, che schiacciano l’uomo, la sua libertà interiore, la sua espansione spirituale. Terza indicazione: la famiglia come prima e fondamentale struttura a favore dell’ “ecologia umana”. Che cosa intende dire? Lo spiega dopo: “nella famiglia, in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità e al bene, l’uomo apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati, e quindi che cosa vuol dire, in concreto, essere una persona”.

Vi leggo alcune battute di Benedetto XVI e finisco. Prendo soltanto la prima omelia da Papa, perché sono convinto che nel primo discorso di un sindaco, di un parroco, di un vescovo, di un Papa, si intraveda qual è la linea in cui vuole andare; nella sua prima omelia parla della Chiesa che deve tirar fuori l’uomo dalle situazioni negative e presenta l’immagine del deserto: “La tanta inquietudine di Cristo deve animare il pastore; per Lui, non è indifferente che tante persone vivano nel deserto” e poi spiega: “Vi sono tante forme di deserto, vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete; vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto; vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo; i deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi”. E dopo aver invitato la Chiesa a interessarsi di quest’uomo che brancola nel deserto, nell’oscurità di tutti questi mali, dice - parlando con grande entusiasmo davanti al piano di Dio per l’uomo -: “Non siamo noi uomini il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione”. E poi: “Ciascuno di noi è evoluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario”. Questa sottolineatura - necessario - è veramente nuova, almeno in questa forma così chiara, da parte di un Papa. Quindi noi dobbiamo essere attenti, perché ognuno è necessario per la vita del mondo e per la vita degli altri uomini. Poi continua: “Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo; non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con Lui”.

E, con riferimento al pastore, che è il Papa, il vescovo, il sacerdote: “Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso ma è bello e grande perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo”.

Avviandosi alla conclusione dell’omelia, riprende la parola del primo discorso di Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura, aprite, anzi spalancate le porte a Cristo”. E nota che purtroppo abbiamo tutti forse una certa paura di Cristo, che tutti stentiamo a mettere la nostra vita interamente nelle mani di Cristo, per il  timore che Egli abbia desideri che sono diversi dai nostri; e mentre il Signore, quando noi andiamo all’Eucarestia, si mette fisicamente, concretamente nelle nostre mani, noi facciamo tanta fatica, abbiamo tanto timore di metterci nelle sue. Non abbiamo forse quasi tutti paura che, se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci diamo totalmente a lui, egli possa portare via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? E concludendo, afferma: “Solo in quest’amicizia con Cristo noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi – e queste sono le ultime parole della sua omelia – io vorrei con grande forza e con grande convinzione, a partire dalle esperienze personali di una lunga vita, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo, Egli non toglie nulla e dona tutto, chi si dona a lui riceve il centuplo, quindi aprite, spalancate le porte a Cristo e troverete la vita”. Voglio concludere con un pensiero di Martin Buber, teologo di origine ebraica, austriaco, il quale così dice in un prezioso libretto, intitolato “Il cammino dell’uomo”: “Ogni uomo viene al mondo per qualcosa di nuovo, che non è mai esistito. Non è chiamato a fare qualcosa di un altro, ma a mettere a frutto la propria unicità e irripetibilità. Non ti si chiederà: perché non sei stato Mosè ma perché non sei stato te stesso. Gli uomini sono ineguali per natura e non bisogna cercare di renderli uguali”.

Padre Enrico Deidda S.J.