31 gennaio 2006
Missioni

31 gennaio - Martedì
Questa mattina si parte alle 7.00 e staremo fuori per due giorni. Dormiremo a San Marcos che è l’aldea più lontana e che non ha una strada per poter essere raggiunta.

A bordo della Toyota parrocchiale ci sono, oltre a me e al padre Octavio, naturalmente le suore vincenziane suor Lucia e suor Dolores, che partecipano alla pastorale parrocchiale e un ragazzo, Ramòn, che frequenta la scuola a Dolores, vive al Collegio con il p. Giorgio ed è di san Marcos: potrà così visitare i suoi.

Arriviamo all’aldea Las Brisas verso le 9.30. Qui lasciamo l’auto e continueremo a piedi.

Un cavallo si fa carico di portare i nostri bagagli.
E’ l’ora della ricreazione e quindi, come sempre succede, i ragazzi della vicina scuola elementare (primaria) circondano il p. Ottavio e gli fanno festa. Una ragazzina, vedendo che io non ho gli stivali come gli altri membri della compagnia, mi dice che troverò difficoltà perché c’è il fango che arriva fino alla gola. Ho sentito parlare spesso per iperboli e non mi preoccupo più di tanto, anche se il padre, prima di partire si era offerto di prestarmi un paio di stivali di gomma, proprio per questo motivo.

Ci avviamo a piedi e il padre e le suore canticchiano una canzone che parla del missionario che va alle aldee, una canzone allegra che aiuta il passo.

A un certo punto lasciamo la carretera e ci immergiamo in un sentiero bello largo. Fango non se ne vede.

Dopo poche centinaia di metri, tutto il sentiero si presenta pieno di fango: non è proprio possibile evitare di passarci dentro. I piedi affondano fino alla caviglia ed il camminare si fa più faticoso.

Andando avanti in questa strada di fango, la situazione non migliora, anzi! Fango dappertutto, e qui non si tratta di iperbole: un fango nero, appiccicoso, pieno di sterco di cavallo, perché i cavalli fanno la spola tra san Marcos e Las Brisas, portando carichi di Mais, essendo tempo di raccolta.

Camminare in questa situazione è molto faticoso.  Oltretutto fa caldo e si suda abbondantemente.

Al nostro gruppo si è aggiunto Ricardo, un bambino di cierca dieci anni, figlio di colui che conduce il cavallo con i bagagli. Il padre Octavio cammina come un treno anche perché è bene arrivare a San Marcos prima dell’ora dell’almuerzo (il pranzo). Soste pochissime e brevissime. Nessuno si lamenta e tutti si va meglio che si può, facendo attenzione a mettere i piedi dove il fango sembra più duro, salvo poi a sprofondare di colpo e a lasciare la scarpa, totalmente affondata nel fango, ritirando su il piede scalzo che, nello slancio della estrazione, affonda, così com’è, anche lui nel fango: che bellezza, che sensazioni!!!

Si prevede di giungere a San Marcos in due ore e non vi nascondo che spesso guardo sconsolatamente l’orologio che ostinatamente segna sempre un grande lasso di tempo dall’ora del previsto arrivo!

Camminiamo su questo sentiero di fango che si addentra nella giungla, attraversa rigagnoli di acqua, supera salite, sempre di fango, affronta paludi implacabili: e noi, sempre adelante!

Non ne posso proprio più: altro che prova sotto sforzo per il cuore!

Arriviamo, a un certo punto, a un ruscello un poco più grande degli altri: mi addentro nell’acqua chiara e fresca, bagnandomi tutto, scarpe e vestito: sensazione paradisiaca!

Il padre ha avuto pietà e anche senza mia richiesta, solo guardandomi, ha deciso per una breve sosta. Sguazzo nell’acqua come una papera e non accenno a uscirne fuori. Siccome, secondo quello che mi si dice, il villaggio è a soli dieci minuti, ho chiesto al resto della compagnia di continuare senza di me, lasciandomi lì a rinfrancarmi un altro po’ insieme a Ricardo perché m’indichi la via. Proposta accettata e così tutti se ne vanno e le loro voci vengono piano piano inghiottite dalla foresta e dal calpestio del fango. Poi solo il gorgoglio rinfrescante del ruscello.

Lavo le scarpe che piene di fango fuori e dentro: una bella fatica per staccarlo: un amalgama appiccicoso, tenace, compatto. Alla fine le scarpe sono pulite, le calze lavate e, siccome Ricardo mi sollecita perché ha hambre (fame), ci rimettiamo in viaggio, dopo aver indossato scarpe e calze totalmente inzuppate: mi danno una splendida sensazione di freschezza!

Cammina, cammina, sempre nel fango, che pare ancora più profondo e appiccicoso, sembra che l’aldea sia stata spostata più avanti perché molti minuti si assommavano ai dieci previsti. Le scarpe sono sporche come prima. A un certo punto sento delle galline: ci siamo! Infatti di lì a poco si intravedono le prime capanne. Finalmente!! Il Fango è terminato e ha ceduto il posto a un sentiero erboso che attraversa tutto il villaggio. Si posso dire proprio “tutto” perché la capanna/casa del catechista, Domingo, cui siamo diretti, è proprio l’ultima del villaggio, anzi anche un poco separata dalle altre: ormai conto anche i metri!

Trovo tutti nella capanna, con davanti un piatto di riso in brodo e dentro un pezzo di pollo.
Saluto tutti, portano anche a me il piatto, mi devo però un poco riprendere dalla fatica prima di cominciare a mangiare. Il cibo è buonissimo e certo non faccio storie per dover mangiare il pollo con le mani, pescando il brodo con un cucchiaio: un lusso! Comincio a vedere intorno a me la  gente e mi accorgo che mi guardano come si guarda un sopravvissuto.Domingo e la sua famiglia sono gentilissimi, come del resto tutta la gente che ho incontrato, hanno vari figli di cui due, i più piccoli stanno all’aldea, gli altri tutti a studiare o a lavorare fuori e una figlia unida (convivente) a Las Brisas. Domingo mi ha detto la parola unida con tristezza e abbassando la voce: lui è il catechista ed è molto stimato qui, perché è anche responsabile della sanità e del progetto di impianto di varie specie di alberi da frutto: quella figlia unida gli pesa un po’.

Terminato il pranzo, vado alla sorgente che dista una cinquantina di metri dalla casa di Domingo: sgorga dalla roccia della montagna sovrastante e viene subito raccolta in un vascone. Da qui un tubo la porta dieci metri più a valle dove ci sono tre tubi che la distribuiscono a chi ne ha bisogno. A questa sorgente il villaggio viene ad attingere l’acqua, qui vengono a lavare e di qui passano le notizie nell’incontro del viavai di tutta l’aldea.

Mi lavo nuovamente le scarpe e le calze (nere che più nere non si può), mi rinfresco la faccia, mi metto calze pulite e, rimettendomi le scarpe completamente inzuppate mi rendo conto che non asciugheranno nella serata.

Domingo mi sembra una persona molto capace, direi eccezionale, date le circostanze. Gode, come già detto della stima e dell’ammirazione di tutti. La sua capanna/casa è carina ed ordinata. Fuori c’è, lussureggiante, un bosco di piante da frutta: Domingo è orgoglioso di questo e mi illustra il progetto della Parrocchia nel quale lui è coinvolto. Con il supporto di amici italiani, la Parrocchia sta aiutando i contadini a diversificare la produzione per avere una migliore alimentazione ed un prodotto migliore, in vista anche della commercializzazione, in modo che possa essere fonte di introiti per il bilancio familiare. Si tratta di non limitarsi alla produzione dei soli fagioli e mais. Nell'appezzamento di terreno davanti alla casa di Domingo ci sono tanti alberi da frutto, tutti tipici della zona tropicale: di ognuno mi viene detto il nome, la forma, il sapore e l’utilizzo del frutto, non sono però in grado di ricordare tutto questo.
Non mancano i fiori, orgoglio di Maria, la sposa di Domingo.

Facciamo varie foto e riprese video in modo da portare con me anche le immagini delle persone e dei luoghi e non solo il ricordo della mente.

Nel pomeriggio il Padre missionario e le Suore incontrano i responsabili dei vari settori pastorali: catechisti, responsabili gruppo giovani, responsabili progetto agricolo, responsabili della liturgia, responsabili del progetto medico ecc.

Poi c’è l’incontro con i genitori, con i giovani e con i ragazzi.

Il Padre viene aggiornato su cosa si è fatto dall’ultima visita pastorale, sulla risposta ottenuta alle varie proposte e su cosa resta da fare. Ci si interroga sulla vitalità della Comunità e si cercano rimedi se qualcosa non va bene.

Questa aldea è costruita in un luogo stupendo: Una grande pianura circolare, circondata dalle colline, come il cratere di un vulcano: tutto è immerso nel verde profondo, misterioso, della giungla, popolata dalle scimmie, dal giaguaro (che qui chiamano tigre), da uccelli dai colori più smaglianti, da serpenti, più o meno velenosi e da uomini di buona volontà che cercano il loro pane quotidiano giorno dopo giorno, con il sudore della fronte e non dimenticando che sono figli di Dio, mettendo quindi in pratica la Sua Parola.

Queste cose che ho descritto esistono davvero e sono mille e mille volte più belle e coinvolgenti. Esiste il “silenzio” della giungla, con i suoi rumori più allarmanti, esiste un popolo che vive, lavora, crede ed esiste ancora chi va da loro a spezzare la Parola di Dio e la Fraternità. Non sto parlando di me: io oggi sono qui e domani sono in Italia con tutte le mie comodità (il fango sarà solo un ricordo da raccontare agli amici), parlo, naturalmente, di chi ha fatto della propria presenza vicino a chi ha tante necessità, la scelta, l’urgenza della propria vita. Non nego che ammiro moltissimo il Padre Ottavio e la sua dedizione ai fratelli e il Padre Giorgio con la “sua” scuola, “inventata” perché anche chi nulla ha possa riscattarsi e creare per se e per il suo popolo una vita migliore; ammiro moltissimo le Suore, queste due (suor Lucia e suor Dolores) che vedo avvicinarsi con l’amore e la “compassione” di Dio alle persone sofferenti, anziane, sole, che in un mondo che produce non hanno più niente da dire; ammiro pure e invidio le migliaia di altre suore e di padre Giorgio e Ottavio che in un mondo pieno di egoismi, rendono tangibile l’amore di Dio.

Andiamo a visitare alcuni malati. Troviamo una ragazza Ersilina, 17 anni, carina, dai lineamenti delicati, che è stata morsicata alla gamba destra dalla mosca ciclera. Questa mosca si chiama così perché vive dove ci sono le piante del cicle (la gomma americana da cui si fanno i chewing-gum (non so se si scrive così!!). Il morso di questa mosca provoca una ferita che si va sempre allargando e che rassomiglia alle ferite della lebbra: la carne viva palpita allo scoperto in questi crateri aperti dalle ferite. Per chi può procurarselo, esiste un medicinale (la cura intera consta di 10 iniezioni) che fa guarire.

La Parrocchia manda avanti anche un programma cosiddetto “de salud” e costruisce (aiuta fornendo il materiale) delle cosiddette unità minime per il primo intervento. Qui l’unità minima è in costruzione. Domingo è il responsabile di questo progetto ed ha partecipato ad un tailler (incontro formativo) organizzato dalla Parrocchia per apprendere i primi rudimenti del pronto intervento, per imparare a fare le iniezioni (siero anti serpente ecc..), immobilizzazione di fratture, ecc…

La ragazzina va portata subito all’ospedale (il subito di qui è = appena possibile) e cioè domani sarà portata a Las Brisas e di lì, con  il pick-up parrocchiale, a Dolores e quindi all’ospedale. Oltre la ferita che ha la circonferenza di circa dieci centimetri, dove c’è la carne viva e dolorante, ha una infiammazione in tutta la gamba: si teme la gangrena e che quindi possa perdere l’arto o, ancora peggio, che possa sopraggiungere una setticemia che metta in pericolo la sua stessa vita.

Andiamo da un signore anziano (don Pedro): 86 anni che ci ricorda che ogni giorno “primero Dios”.

Quindi cena in un'altra capanna: sempre pollo in brodo con riso. Questa volta non c’è il cucchiaio e così si pesca tutto con le mani. L’oscurità è quasi totale, c’è solo la luce di una mozzicone di candela. Il sapore del cibo è eccellente e il fatto che ci si mantiene… leggeri, fa sì che tutto sparisca in men che non si dica!

Poi la campana, anche qui una balestra di camion, ci chiama. Confessioni e Messa. La chiesa/capanna si riempie. Le confessioni durano più di un’ora, si confessano tantissimi uomini. Poi inizia la Messa, molto partecipata con canti e preghiere dei fedeli che non hanno bisogno di foglietto per essere espresse. La solita omelia aderente alla Parola di Dio nella vita quotidiana.

 

 

Dopo la Messa ci si prepara ad andare a “letto”. Qui i letti non esistono e quelli che si chiamano cama, che pure vuol dire letto, sono delle strutture rettangolari, in legno, a forma di letto, intersecate da spaghi vari e con sopra uno stuoino di un centimetro di spessore: questi sono i loro letti. Le suore vengono ospitate da Domingo e la sua famiglia nell'unica stanza adibita a "stanza da letto". Il p. Ottavio ed io ci prepariamo a passare la notte nella chiesa. Lui ha un materassino gonfiabile che sta tirando le cuoia: perde l’aria piano piano e così il suo ospite si ritrova a dormire sul duro terreno o, come in questo caso, sul duro banco di chiesa. Io ho portato un’amaca e mani pietose l’hanno montata legandola ai pali portanti della chiesa: dormirò lì (almeno ci proverò), così, sospeso tra cielo e terra, nella chiesa, in compagnia di p. Octavio e di Gesù, perché in questa chiesa si conserva l’Eucaristia.

Qui non si tratta di mettersi pigiami o altro, ma di mettersi addosso tutto ciò di cui dispongo perché fa freddo. Mi distendo sull’amaca, metto la giacca della tuta che mi sono portato a coprire i piedi e la pancia, un maglioncino (grazie Luisa!) me lo infilo bene e… provo a chiudere gli occhi. Mi sembra di stare bene. Già il non avere le scarpe bagnate ai piedi è bello.  Poi comincio a rivoltarmi da tutte le parti, in tutti i modi, senza mai trovare quello giusto. Ma come fanno a dormire su questo attrezzo?

Stremato dalle varie giravolte, mi alzo ed esco dalla chiesa. C’è freddo, ma quello che vedo mi riempie di stupore e di gioia: non avevo mai visto un cielo così stellato, con le stelle così luminose, così grandi e così vicine, si, proprio vicine: forse sono vicine perché hanno qualcuno a cui badare. Sono rimasto lì, incurante del freddo, e, siccome anche il padre Octavio era sveglio, gli ho comunicato le mie emozioni.

Mi è venuto vicino e sentivo che, sebbene per lui questo sia uno spettacolo abituale, è tuttavia emozionato come me.

Tornato alla mia amaca ho riprovato. I piedi troppo su, la testa troppo giù, pericolosamente tutto da una parte, e così via, finché non si è fatta l’alba. Non credo di aver dormito, anche se ero molto stanco, e se ho dormito ho sognato di essere sull’amaca e quindi è come se non avessi dormito!.
Ciao
p. Alb.

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